La fecondazione in vitro ha, in media, tassi di riuscita non molto elevati: un embrione creato con questa tecnica non si impianta facilmente nell’utero, e la procedura deve perciò spesso essere ripetuta, con moltiplicazione dei costi e dei disagi. Per ovviare a questo problema si può trasferire in utero più di un embrione contemporaneamente, aumentando la probabiltà di ottenere una gravidanza, ma anche che questa sia gemellare o plurigemellare, con gravi rischi per la salute e la vita dei concepiti e della donna. Si è tentato dunque di aumentare le percentuali di attecchimento del singolo embrione; una tecnica che ha conosciuto un buon successo consiste nel rimandare l’impianto allo stadio embrionale della blastocisti, che inizia cinque giorni dopo il concepimento (normalmente si impiantano invece embrioni che sono rimasti nella provetta solo tre giorni). Di conseguenza, in molti paesi le linee guida che regolano la materia raccomandano ormai ove possibile il trasferimento di un singolo embrione; una delle limitazioni più importanti riguarda l’età della paziente, che fino ad oggi non doveva superare i 35 anni – anche se la maggioranza delle donne che ricorrono alla fecondazione in vitro supera purtroppo questo limite.
Ma adesso un gruppo di ricerca guidato da Amin Milki della Stanford University ha dimostrato che anche in un gruppo selezionato di donne di età superiore a 35 anni è possibile ottenere con il trasferimento singolo di blastocisti tassi di gravidanza lusinghieri, addirittura superiori al 50%, a fronte di una media americana del 25% per pazienti della stessa età ma non selezionate (L. B. Davis et al., «Elective single blastocyst transfer in women older than 35», Fertility and Sterility, 2007).
La tecnica del trasferimento unico ha attirato da noi l’attenzione degli integralisti e dei loro alleati, che hanno visto in essa una conferma della bontà della legge 40/2004 sulla procreazione assistita. Com’è noto, uno dei punti più controversi della legge riguarda la proibizione di fecondare più di tre ovociti per procedura (art. 14 comma 2); in precedenza, invece, non esisteva un limite, ed eventuali embrioni in sovrannumero potevano venire congelati. Dicono allora gli integralisti: le tecniche all’avanguardia prevedono ormai l’impianto di un solo embrione (o comunque di un numero limitato di embrioni), con una buona probabilità di successo; non è dunque più necessario crearne un gran numero, e la legge 40 non ha bisogno di essere cambiata.
Dov’è l’inganno? Quello che viene sistematicamente taciuto è che la tecnica del trasferimento unico funziona proprio perché prevede la selezione degli embrioni migliori – che verranno impiantati – fra un grande numero di embrioni ottenuti. Nei casi riportati da Amin Milki il criterio di selezione è stato appunto quello di impiantare un singolo embrione soltanto alle donne che avevano prodotto embrioni di qualità elevata. Nello studio che ha dimostrato la superiorità dell’impianto della singola blastocisti si afferma (Evangelos G. Papanikolaou et al., «In Vitro Fertilization with Single Blastocyst-Stage versus Single Cleavage-Stage Embryos», New England Journal of Medicine 354, 2006, pp. 1139-46, a p. 1140):
Lo svantaggio principale di trasferire l’embrione all’età di tre giorni invece che a cinque è che i criteri morfologici che si usano per la selezione embrionaria al terzo giorno sono estremamente soggettivi, e riflettono con minore accuratezza la qualità genetica (cioè il numero corretto di cromosomi) degli embrioni rispetto ai criteri usati al quinto giorno.Esistono altre tecniche per aumentare il tasso di impianto, oltre a quella del trasferimento della blastocisti, ma praticamente tutte si basano sulla selezione degli embrioni migliori. Una procedura, per esempio, precede il trasferimento di un embrione singolo di tre giorni di buona qualità, seguito (in caso di insuccesso) da quello di un embrione congelato con le stesse caratteristiche: la percentuale di impianti coronati da successo si alza, senza sottoporre le pazienti a nuove stimolazioni ormonali (A. Thurin et al., «Elective single-embryo transfer versus double-embryo transfer in in vitro fertilization», New England Journal of Medicine 351, 2004, pp. 2392-402).
In Italia non si può effettuare invece nessuna selezione embrionaria: primo, perché la legge sembra proibirla (dico «sembra» a causa della coraggiosa interpretazione della legge proposta dal giudice Maria Grazia Cabitza, che ha aperto un varco in questo senso – e che è infatti è stata subito sottoposta a un vero e proprio linciaggio morale dagli integralisti), e secondo perché il numero di embrioni su cui effettuarla (tre al massimo) sarebbe in ogni caso troppo piccolo. In queste condizioni, se si procedesse all’impianto di un solo embrione la percentuale di successo sarebbe miserabilmente bassa.
Gli integralisti rispondono a queste obiezioni sostenendo che analoghe indagini possono essere svolte sugli ovociti. Per la verità, la legge 40 sembrerebbe proibire anche questa pratica, visto che all’articolo 13, comma 3b, vieta «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti»; ma ammettiamo pure, per amore di discussione, che tale divieto non esista o che si riferisca a qualche altra cosa. Per prima cosa, va notato che le indagini sugli ovociti non sono morfologiche, come quelle che abbiamo passato in rassegna qui sopra, ma genetiche: le analisi morfologiche degli ovociti sono ancora troppo incerte per fornire risultati attendibili. Si preferisce quindi prelevare il cosiddetto primo globulo polare (o corpo polare), un corpuscolo emesso dall’ovocita in maturazione che contiene una copia di tutti i suoi cromosomi, e effettuarne la biopsia. In questo modo è possibile rilevare indirettamente eventuali difetti genetici dell’ovocita, in particolare lo stato di aneuploidia, cioè qualsiasi cambiamento nel numero dei cromosomi, che devono essere esattamente 46, o più esattamente 23 paia (nella trisomia, per esempio, si hanno tre copie di un dato cromosoma invece di due). È proprio l’aneuploidia la causa di buona parte dei mancati impianti dell’embrione nell’utero.
Tutto bene, dunque? No. Di nuovo, gli integralisti ci tengono nascoste informazioni chiave. Una buona parte delle aneuploidie, infatti, si producono nell’ovocita dopo l’espulsione del primo globulo polare; altre sono presenti nello spermatozoo, e altre ancora si producono nell’embrione dopo la fecondazione. Per individuare queste anomalie si deve ricorrere alla biopsia di una delle cellule dell’embrione; questa tecnica sarà dunque sempre molto più efficiente della biopsia del primo globulo polare – anche perché a differenza di quest’ultima consente la ripetizione dell’esame su un’altra cellula se ci sono incertezze nel risultato – ma gli integralisti non permetteranno mai che venga adottata, visto che comporta di nuovo la selezione degli embrioni. Esistono comunque ancora incertezze sulla sua efficienza assoluta (e a maggior ragione sull’efficienza della biopsia del globulo polare) nel favorire l’impianto dell’embrione, anche in ragione dei costi assai elevati di una biopsia (Brendan Maher, «Embryo screening “doesn’t improve” pregnancy success», Nature News, 17 ottobre 2007). Per adesso, la selezione morfologica degli embrioni sembra ancora l’unica via aperta per rendere fattibile il trasferimento di un singolo embrione.
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