sabato 30 settembre 2006

Da che parte pende il piano inclinato?

Le reazioni al caso Welby da parte di chi è contrario all’eutanasia mostrano una sconsolante uniformità: se si concedesse ai malati il diritto a una morte pietosa – così va l’argomentazione preferita di questi commentatori – in capo a pochissimo tempo ci ritroveremmo all’eutanasia di Stato, con commissioni mediche preposte a decidere chi sia degno di vita e chi no, e a sopprimere a forza chiunque non soddisfi i requisiti necessari. Scivoleremmo tutti su un piano inclinato che dal liberalismo ci condurrebbe inevitabilmente al nazismo.

Ciò che più sconcerta è l’impermeabilità che chi avanza questo argomento mostra alle obiezioni. Non si tratta soltanto dell’incapacità di pensare tipica di chi ripete senza averli vagliati i luoghi comuni della propaganda: vedremo alla fine di individuare un motivo più profondo. Ma bisogna forse anche ammettere una carenza di chiarezza da parte dei sostenitori dell’eutanasia, a cui cercherò qui, come posso, di ovviare.
Quello che vogliamo non è stabilire un criterio oggettivo con cui valutare se le sofferenze di un malato superino ormai la sua capacità di sopportazione, né fissare una soglia minima di qualità della vita, al di sotto della quale sia meglio per chiunque morire. Non si tratta insomma di dare ‘ragione’ a Welby, nel senso di convenire che una persona nelle sue condizioni non potrebbe fare altro che chiedere l’eutanasia, o che comunque se fossimo noi al posto suo faremmo le medesime scelte. Men che meno vogliamo affermare che la vita di Welby sia senza valore, e rappresenti un peso per la società e un costo improduttivo per lo Stato. Quello che vogliamo, invece, è che si riconosca che ciascuno è il miglior giudice di ciò che è bene per se stesso; la libertà di Welby va dunque rispettata (assieme alla libertà di chi lo volesse aiutare a compiere la sua volontà). E questo è del tutto indipendente da come ci comporteremmo noi nella sua situazione, o da come effettivamente si comportano altri affetti dallo stesso male: i casi esemplari di persone che al contrario di Welby desiderano vivere anche se sono attaccati a un respiratore e non possono più né parlare né muoversi dal letto, non possono indurci a cambiare opinione. Contrariamente a quello che scioccamente pensa qualcuno, non conta neppure il valore che la vita di Welby ha per noi, e che avrebbe, in quanto esempio consolante, anche se Piergiorgio cessasse di donarci i suoi interventi in rete: non conta, perché i costi di quella esistenza non siamo noi a doverli sopportare. Infine, nel momento in cui affermiamo così solennemente il valore della scelta individuale, allontaniamo anche la possibilità che lo Stato si ingerisca in queste vicende: non ci sarebbe nulla di più contraddittorio che affermare il diritto di decidere della propria vita, solo per cederlo subito dopo a una commissione governativa (che un giorno potrebbe oltretutto decidere che è la nostra vita a non essere più degna di essere vissuta). Il ruolo della collettività dovrà sempre limitarsi ad accertare che la persona abbia effettivamente bisogno di aiuto per morire, che sia pienamente capace di intendere e di volere, che conosca la prognosi medica, e che la sua decisione sia irrevocabile.
In tutto questo non c’è nulla di mostruoso o disumano. Tutti ricordiamo il caso recente della donna che aveva rifiutato di farsi amputare un piede, benché l’intervento fosse l’unico modo per salvarle la vita, ritenendo che con quella menomazione la propria esistenza non sarebbe stata comunque degna di essere vissuta. Nel rispetto degli artt. 13 e 32 della Costituzione alla donna non è stato imposto alcun trattamento medico, e dopo poco è morta. Credo che la grande maggioranza delle persone (me compreso) avrebbe deciso diversamente, se si fosse trovata nelle medesime condizioni; eppure quasi nessuno si è scandalizzato per questo episodio, o ha pensato che fosse il primo passo sulla strada che conduce all’eutanasia coercitiva per tutte le persone a cui manchi una mano o un piede. Le differenze col caso Welby ci sono, è ovvio, eppure tra omissione ed azione la distanza non è poi così enorme.

Naturalmente, anche limitandosi al rispetto rigoroso della volontà del malato i problemi non mancano. Quando la persona è divenuta incapace di volere può essere ancora possibile ricostruire i suoi intendimenti passati, soprattutto se è disponibile un testamento biologico; ma se l’incapacità è permanente (come nel caso degli infanti o dei disabili mentali), la decisione spetta ai suoi tutori legali. In questo caso il ruolo dello Stato viene ad ampliarsi, per la necessità di vigilare che sia fatto il migliore interesse del malato; ciò comporta fatalmente la stesura di protocolli, sia pure particolarmente rigorosi (un requisito che credo necessario, benché forse crudele, potrebbe essere quello che il malato non sia in grado di raggiungere mai la capacità mentale sufficiente a decidere da solo). L’obiezione che in questi casi si violerebbe l’autonomia personale è inconsistente, visto che i tutori hanno non solo il diritto ma anche il dovere di scegliere ciò che è meglio per il malato, e che non decidere significherebbe abbandonare una persona indifesa a lunghi, insopportabili tormenti.
In alcuni casi il problema delle risorse disponibili si può effettivamente presentare: i reparti di rianimazione hanno una capienza limitata, e i medici si possono trovare facilmente nella situazione di dover rifiutare per esempio il ricovero di un ragazzo vittima di un incidente stradale perché l’ultimo letto disponibile è occupato da un anziano in coma per un ictus, con scarsissime possibilità di riprendersi. Non voglio suggerire soluzioni semplicistiche a un dilemma etico così tragico, ma a una scelta non ci si può comunque sottrarre, quali che siano i propri convincimenti. Le risorse disponibili sono limitate, e il più delle volte aggiungere qualche letto a un reparto significa semplicemente ritrovarsene occupati in permanenza un numero maggiore di prima.
Un problema connesso, ma che può confondere il dibattito, è quello di stabilire fino a che punto si può continuare a presumere la presenza di autocoscienza – e quindi di vita personale – in un cervello estremamente danneggiato, come nel caso dello stato vegetativo permanente o delle fasi più avanzate delle demenze. Questa non è che un’estensione del concetto di morte cerebrale (si è parlato spesso in passato di introdurre il concetto di morte corticale, cioè della sola corteccia cerebrale), dove non si stabilisce affatto che una persona non sia più ‘degna’ di vivere, ma piuttosto che una persona vera e propria non c’è più.

Chi è contrario all’eutanasia non si limita di solito ad affermare che la vita ha sempre e in ogni circostanza valore: svaluta infatti anche la capacità di giudizio delle persone che non riescono più a trovare una ragione per proseguire un calvario insopportabile, e ne riduce la libera scelta ad «errore» e «debolezza». Ma soprattutto svaluta il ruolo dell’individuo di fronte a una Verità assoluta che lo trascende, e quindi anche, per logica conseguenza, di fronte a uno Stato che di quella Verità si faccia garante. E tanto aliena dal dubbio è la sua convinzione che lo Stato debba essere etico, che finisce per attribuirla – cambiata di segno – anche ai suoi avversari, rimanendo quasi sempre incapace, come vedevamo all’inizio, di comprendere il loro appello alla libertà individuale. Ma è proprio lui a propagare in questo modo l’idea che è stata alla base di mali giganteschi: l’idea che lo Stato o la comunità possano legittimamente privare gli individui della loro libertà. È un’idea che ha servito molte ideologie, che oggi serve l’ideologia della sacralità della vita, e che domani potrebbe cambiare una volta di più padrone. Da che parte pende, allora, il piano inclinato?

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie.Solo questo.

Anonimo ha detto...

Pur condividendo, in linea di massima, i contenuti di questo post (specialmente la sottolineatura del primato dell'individuo sul potere costituito), un paio di possibili chiose alimentano il mio dissidio interiore riguardo al concetto di "libertà" in generale e alla sua applicazione al caso di Piergiorgio Welby in particolare.
Innanzitutto, quando si rifiuta la logica che consente ad un "collettivo" di limitare la libertà dei singoli, mi auguro si contempli l'eventualità che ciò possa avvenire a salvaguardia dello status quo "buono" (difesa dal crimine, dalle calamità e così via: le forze dell'ordine, talvolta, restringono il perimetro dell'autodeterminazione). Ovvietà, senza dubbio, ma anche rimarchevoli eccezioni alla "regola" testé enunciata.
In secondo luogo, pur pendendo più a favore della richiesta di Welby che per un divieto rigido e generalizzato dell'eutanasia, trovo che molto spesso, negli argomenti utilizzati dai fautori di una liberalizzazione erga omnes della morte pietosa, ricorra una certa equivoca intersezione di significato tra i termini "libertà" e "salute". La diabetica con il piede in cancrena era libera di fatto, ha cioè potuto rifiutare un trattamento sanitario - letteralmente - sulle sue gambe. Welby no: egli domanda di sospendere il "non uccidere" in regime di privativa e senza motivazioni ricoundibli alla fattispecie dell'autodifesa. Va bene, nel suo caso basterebbe aumentare il dosaggio di sedativi, ma visto che la battaglia condotta dal vice presidente dell'associazione Luca Coscioni vuole assurgere al rango di proposta politica, non si può ignorare la sua implicita estensione ad una casistica più ampia.
Insomma, siamo sicuri che la nomina di un fiduciario sia indispensabile solo per i soggetti incapaci di intendere e volere e non anche per quelli incapaci esclusivamente di volere?
Un saluto.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Ismael: il primo punto è, come dici tu, un'ovvietà, e in quanto tale non ci dovrebbe essere bisogno di ricordarlo ogni volta. Ho solo da eccepire rispetto a quella che tu chiami «salvaguardia dello status quo "buono"»: lo Stato non deve difendere valori, ma diritti, e in particolare il diritto di ciascuno alla libertà personale (che notoriamente finisce dove comincia la libertà altrui). Se persegue poi beni collettivi, come p.es. la costruzione di una centrale elettrica, lo può fare solo senza sacrificare le libertà di alcuni a favore del vantaggio della società, e dovrà quindi prevedere congrui indennizzi agli espropriati, etc.

Devo confessarti che invece non ho capito bene il secondo punto: in che senso Welby sarebbe incapace di volere? A me sembra che la sua unica incapacità sia di potere. Forse la tua perplessità riguarda il fatto che l'eutanasia non si può sussumere sotto la categoria dell'autodifesa? Ma in ogni caso non costituisce un'eccezione al divieto di uccidere, visto che uccidere viola un diritto solo se la vittima non è consenziente (se ho tempo vorrei dedicare un post proprio a questo argomento).

Saluti.

Anonimo ha detto...

Intendevo fare riferimento al rapporto di filiazione che lega diritto e costume: il primo è conseguenza "temperata" del secondo, che a sua volta deriva da valori "di principio". La libertà è anche è soprattutto un valore che si scontra con la miriade di contesti pratici in cui il suo risvolto concreto viene diversamente interpretato da ciascuno. Da cui la norma positiva: se l'adagio - peraltro sacrosanto - che recita "la mia libertà finisce dove inizia quella altrui" bastasse a fare testo da sé, nemmeno si sarebbero mai scritte leggi e leggine più o meno meticolose.
Giusto per rimanere al rilievo "more liberatorio" dell'omicidio consenziente: salvo ulteriori precisazioni, un carabiniere, davanti all'autore di un omicidio su commissione, dovrebbe accettare come discolpante una delega al killeraggio conferita - a voce o per iscritto - dal morto all'uccisore. Il che, ovviamente, non può sussistere a rigor di logica. Ciò che divide l'arbitrio (anche quello più liberale) dai diritti individuali è l'esistenza di una norma. Cioè di un discrimine tra lecito e illecito fondato su considerazioni perlopiù qualitative, di valore. Altrimenti resta il vuoto normativo, ossia il luogo dove volere e potere coincidono a prescindere.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Sbaglierò, ma ho la sensazione che di questo passo si arrivi dritti dritti a invocare la necessità del riconoscimento delle "radici cristiane" come unica giustificazione dei diritti - che invece si fondano su semplici considerazioni di simmetria (del tipo: se voglio la garanzia che la mia libertà sia rispettata devo sostenere il rispetto della libertà di tutti); considerazioni che portate alle loro logiche conseguenze dalla riflessione astratta possono a loro volta cambiare il diritto vigente e con esso il costume e i "valori" (la causalità non segue una sola direzione). Che poi i diritti si sostanzino in norme giuridiche mi sembra ovvio - chi ha mai sostenuto il contrario? Chiaramente da liberali ci si dovrebbe augurare che leggi e leggine non siano troppo numerose o meticolose...

Non capisco infine perché trovi illogico che il carabiniere (o meglio ancora, il giudice) possa "accettare come discolpante una delega al killeraggio conferita - a voce o per iscritto - dal morto all'uccisore", ammesso ovviamente che questa delega sia dimostrabile. Lo stesso codice penale considera come attenuante ai reati "l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale" (art. 62, c. 1).

Anonimo ha detto...

Non sono molto amante della metafora di "radice", perché richiama l'idea di un complesso di fondamenti identitari rigidi e immutabili. Preferisco prendere in considerazione una combinazione di influssi culturali di peso e durabilità variabili. In effetti, se ci si pensa, la litote crociana del "non possiamo non dirci cristiani" vuole evidenziare il contributo di una certa corrente alla formazione di una matrice culturale molto contaminata. Nella quale si è arrivati a far vigere "semplici considerazioni di simmetria (del tipo: se voglio la garanzia che la mia libertà sia rispettata devo sostenere il rispetto della libertà di tutti)", che è come parafrasare il cristiano "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te". Dopodiché ciascuno valuta come e quanto farsi influenzare da questo o quel filone culturale (tra i maggiori vi sono la logica classica, il diritto romano, il neoclassicismo illuminista, fino ad arrivare all'odierna globalizzazione).
I retaggi di cui sopra hanno però tutti in comune una base etica, una ricerca di senso. Che permane nella moderna distinzione giuridica tra lecito e illecito; mi volevo limitare a specificare questo.
Come faccia, poi, a costituire motivo "di particolare valore morale o sociale" un omicidio al minuto, io non so, anche se i termini di un'attenuante così formulata mi suggeriscono un fondo morale comunitario, quindi non strettamente individualista o libertario.
Volendo ammettere la fattispecie, però, la necessità di "dimostrare" il conferimento di una delega implica automaticamente un controllo esterno, un'autenticazione a norma di legge. Il che escluderebbe una gestione totalmente "in proprio" di simili eventualità.
Per farla breve (poi non disturbo oltre): anche una legge liberale definisce un'etica pubblica. Sono la modificabilità e la possibilità di aggiustamento a distinguerla da un'assunzione totalitaria.
Torno alla domanda, allora: se alla libertà deve corrispondere la resposabilità, nel caso che una circostanza come quella in cui versa Welby evolva in modo imprevisto o scorretto, chi si assume la responsabilità "in solido" di abusi o negligenze? Io opterei per un tutore anche nel suo caso. Più ci rifletto e più mi appare come l'unica soluzione al problema, anche se dubito che in materia possano darsi facili panacee...

Giuseppe Regalzi ha detto...

Una precisazione: la regola aurea ("Non fare agli altri etc.") è stata formulata anche in altre culture: Confucio ha preceduto Gesù di Nazareth di qualche secolo. Si tratta di un'idea naturale, sostanzialmente indipendente da una data ‘radice’; e anche se noi l'abbiamo ereditata di fatto tramite il cristianesimo, penso che in qualche modo sarebbe comunque venuta fuori.

Non ho capito assolutamente cosa intendi per "un omicidio al minuto" (non stavamo parlando dell'omicidio del consenziente?), quindi non posso rispondere su questo punto.

Io direi che una "legge liberale" definisce una meta-etica, piuttosto che un'etica, e che in questo si differenzia soprattutto da "un'assunzione totalitaria".

Per la questione del tutore ti chiederei di fare un esempio concreto dei possibili "abusi o negligenze" che si potrebbero verificare.

Ciao.

Anonimo ha detto...

Chiedo scusa, rileggendo ho capito solo ora che l'espressione "omicidio al minuto" era facilmente equivocabile! Non volevo ripetermi, per cui l'ho usata in equivalenza a "omicidio somministrato al minuto". Pardon, sviste da risposta secca...
Negligenza potrebbe essere - esempio che non riguarda necessariamente Welby - raccontare ad un infermo grave che, assumendo una overdose di determinati sedativi o anestetici, può morire assopendosi, e poi, invece, scoprire che il trapasso gli causa convulsioni dolorose. Errori o omissioni di informazione, essenzialmente.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Ismael, ma la possibilità di «errori o omissioni di informazione» perché richiederebbe un tutore per il malato (come dicevi nel tuo penultimo commento)? Welby è capace di intendere e di volere.

antonio ha detto...

In Belgio è possibile scegliere l'eutanasia anche quando non si ha una malattia terminale (http://happily.it/eutanasia-per-i-casi-di-depressione/). Ma mi chiedo, quanto si può parlare di libertà di scelta in una persona che soffre di depressione?