venerdì 27 giugno 2008

Se dire «figlio» è dire «danno»

La vicenda è comparsa brevemente sui giornali del 24 giugno. Così la sintesi di RepubblicaAborto non riuscì e nacque bimbo. Gela, condannato l’ospedale», p. 19):

La sezione civile della corte d’appello di Caltanissetta ha condannato l’azienda ospedaliera «Vittorio Emanuele» di Gela a risarcire i danni, calcolati in 80 mila euro, a una donna che ha dato alla luce il suo terzo figlio, malgrado le fosse stato garantito che l’interruzione volontaria della gravidanza era avvenuta con successo. La vicenda risale al 1999 quando una donna di 40 anni, madre di due figli e in precarie condizioni di salute, si accorse di essere incinta. All’ospedale di Gela i medici della divisione di ostetricia erano tutti obiettori di coscienza. L’interruzione di gravidanza fu eseguita da un sanitario convenzionato esterno. Sulla cartella clinica fu riportata la riuscita dell’intervento. Nessun controllo sarebbe stato eseguito o prescritto alla paziente, che, alcune settimane dopo, accusando nuovamente i sintomi della gravidanza, si rivolse a un ginecologo privato. Eseguiti gli accertamenti, il medico si complimentò con la donna, annunciandole che era incinta di 5 mesi. Oggi quel bambino ha 9 anni.
Il Riformista, a differenza di Repubblica, sceglie di andare oltre il mero racconto di cronaca, e lo fa pubblicando un commento anonimo («Se il figlio è un danno da risarcire», p. 2), in cui fra l’altro si legge:
Sia chiaro, giuridicamente parlando è tutto legittimo. E il nostro sussulto etico non ha nulla a che fare con la scelta della donna di abortire o meno. Ma, laicamente, il fatto che la nascita di un bambino equivalga a un danno da quantificare in euro, ci sembra un’equazione assai discutibile. Senza voler fare i soloni sul valore della vita ci limitiamo a notare un fatto. Di casi di mala sanità su cui chiedere risarcimenti se ne vedono tutti i giorni. Ma, alla fine, non di questo si sta parlando, sia pure nell’ambito di un intervento non riuscito. È, semplicemente, nato un bambino: non ci sembra una sciagura su cui chiedere un risarcimento da 80 mila euro.
L’anonimo lascia nel non detto la questione di come sanzionare la colpa del medico in un modo diverso da un risarcimento; possiamo solo sperare che non ritenga che gli errori commessi nell’interruzione di gravidanza debbano andare esenti da pene. Ma a parte questo, un’obiezione ovvia viene alla mente, e la ritroviamo persino su Avvenire di ieri («Nasci e ti chiedono i danni», 26 giugno, inserto È Vita p. IV), ovviamente dal punto di vista ben noto del giornale dei vescovi italiani: se non ci fosse stata la possibilità di un danno non ci sarebbe stata nemmeno la possibilità di abortire, visto che la legge 194 stabilisce che la condizione per interrompere la gravidanza sia la presenza di «un serio pericolo per la salute fisica o psichica» della donna; e dall’entità del risarcimento sembra proprio che questo pericolo si sia materializzato in un danno attuale, che non si vede proprio perché non dovrebbe essere quantificabile in euro.
Possiamo immaginare quale sarebbe la probabile contro-obiezione dell’anonimo: certo, un danno c’è stato; ma esso è interamente compensato e superato dal beneficio incommensurabile di avere un figlio. Al netto c’è stato un guadagno. Come rispondere? Guardiamoci intorno: quante donne possiamo contare che hanno sfruttato a pieno il proprio potenziale riproduttivo? Una donna in buona salute può partorire anche una volta all’anno; una ventiduenne potrebbe, in teoria, arrivare anche a venti parti. Ma tutte le donne – con infime eccezioni, persino nel terzo mondo – si fermano molto prima. Possono essere atee, buddiste, musulmane, cattoliche: praticamente nessuna arriva fino in fondo. Naturalmente non tutte abortiscono; possono ricorrere alla contraccezione, alla sterilizzazione, all’astensione dai rapporti sessuali o al metodo Billings; ma questo è irrilevante. Ciò che conta è che tutte queste donne ritengono a un certo punto – un punto variabile per ciascuna – che un figlio in più porti il costo dell’essere madri a un totale che eccede ogni possibile beneficio. Il costo può essere economico o fisico (parti ripetuti finiscono per sfibrare anche il fisico più robusto), o anche psicologico; ma il limite viene quasi invariabilmente raggiunto. E se per errore lo si supera è molto difficile negare che la donna abbia subito un danno – un danno netto. Si potrebbe obiettare che il danno che si vuole evitare ricade in realtà il più delle volte sugli altri figli; e questo in parte è sicuramente vero. Ma quante donne, fra quelle che non si possono permettere economicamente un altro figlio, avvierebbero consapevolmente una gravidanza, con l’intento di cedere il bambino a una coppia senza figli, evitando così i costi per la propria famiglia ma conservando in qualche modo quegli ipotetici incommensurabili benefici – per esempio mantenendo i contatti con il bambino? Pochissime, forse quasi nessuna. Alla fine c’è sempre un punto in cui i costi superano i benefici, e la considerazione di un danno personale – qui, quello di consegnare una propria creatura ad altri – è sempre quella decisiva.
Ora, è possibile che tutte queste donne si sbaglino? È possibile che in realtà il commentatore del Riformista comprenda meglio di loro il loro interesse, e che avere un figlio non sia mai un danno? Che se solo sapessero, tutte le donne converrebbero con questa verità, elargita con modestia da qualcuno che premette di non voler fare il «Solone»? Mi permetto di dubitarne – di dubitarne fortemente.

L’amore per i figli è un sentimento umano, forse più il forte; ma come tutte le cose umane è finito, non infinito, e in quanto tale può essere superato da altre considerazioni. Ammettere questa verità non è sintomo di cinismo ma di maturità, e non inficia affatto la verità di quel sentimento. Può risultare (apparentemente) paradossale, ma sono certo che la signora di Gela non ama adesso meno suo figlio per il fatto di aver preferito una volta che non nascesse.

1 commento:

paolo de gregorio ha detto...

Eccoci alle solite: per sostenere una tesi particolare senza presentarla come tale si fanno generalizzazioni che non passano i più banali test "generali". Leggo:

"il fatto che la nascita di un bambino equivalga a un danno da quantificare in euro, ci sembra un’equazione assai discutibile"

Chiederei a questo punto al giornalista, visto che ne fa un principio generale, se sarebbe d'accordo di far pagare una multa ad un medico/scienziato che faccia nascere un bambino clonato (ma basterebbe anche una fecondazione eterologa, anch'essa illegale). Il nostro codice prevede sanzioni anche penali gravissime, oltre che pecuniarie, che in quanto tali sono appunto una quantificazione del danno; e siamo sicuri che lo stesso giornalista si indignerebbe e non troverebbe inopportuna una sanzione anche in denaro per quel medico troppo avventuroso. Eppure anche in quel caso sarebbe solo "nato un bambino", la cosa mi pare innegabile. Quindi siamo alle solite: il suo "sussulto etico" ha invece proprio tutto "a che fare con la scelta della donna di abortire o meno".