A testimonianza del clima che circonda il dibattito sul testamento biologico si materializzano prepotentemente due reazioni quasi sincrone nel leggere il bel pezzo di Anna Meldolesi (L’obiettivo è personalizzare la morte non stabilire una morte uguale per tutti, Il Riformista, 20 giugno 2007): la prima è sollievo e gusto nella lettura; la seconda è sgomento al pensiero che un simile paradosso temporale possa essere preso sul serio.
Per il testamento biologico si è messa davvero male. Più si allunga il dibattito, più la mediazione rischia di diventare cervellotica e più la matassa finisce per ingarbugliarsi. E se questo accade già in commissione Sanità, figuriamoci cosa potrebbe succedere dopo in aula. Ma allora, forse è il caso di gettare la spugna, dandola vinta a chi dice che possiamo anche fare a meno di una legge sul tema? Rinunciare sarebbe doloroso, e non solo per una questione di “laicismo identitario”. Il fatto è che di una norma c’è bisogno, perché ci sono due obiettivi da raggiungere. I cittadini devono poter contare sul fatto che le loro preferenze in materia di trattamenti medici saranno tenute in debita considerazione anche nel caso in cui non saranno più in grado di esprimerle. Mentre i medici devono poter contare sul fatto che non saranno perseguiti per aver rispettato le volontà dei malati, come invece sta succedendo a Mario Riccio. Dunque non è il caso di battere in ritirata. Ma poiché la strada appare sempre più in salita, può essere utile ricordare a Fiorenza Bassoli e agli altri mediatori dell’Unione che a forza di spaccare il capello in quattro si rischia di ritrovarsi con niente in mano. Prendiamo il caso dei trattamenti sostitutivi, quelli che vengono intrapresi per rimediare al deficit di funzioni complesse dell’organismo, come la ventilazione meccanica e la nutrizione artificiale. Per evitare il muro contro muro, si potrebbe tentare di distinguere tra nutrizione parenterale ed enterale, tra ventilazione a breve o lungo termine, tra diverse tipologie di pazienti, tracciando un confine arbitrario tra accanimento terapeutico e cure ordinarie. Concedendo solo qualcosa ad alcuni, forse si riuscirebbe a salvaguardare – almeno all’apparenza – i principi di tutte le parti politiche. Ma se per cercare una via d’uscita al disaccordo ci si affida ai tecnicismi, è difficile arrivare lontano. Una lezione, tutt’altro che esaltante, viene da Israele. Da un paio di mesi è entrata in vigore una legge che prevede la possibilità di redigere il testamento biologico e disciplina anche la sospensione delle cure nei pazienti coscienti che lo desiderano, purché abbiano davanti a sé meno di sei mesi di vita. Per arrivarci ci sono voluti sette anni: il ministero della Sanità ha istituito un apposito comitato di 69 membri nel 2000, la legge è passata quasi all’unanimità nel 2005 e la stesura delle linee guida ha occupato il tempo restante. Ma il risultato lascia perplessi e non soltanto per la severità di alcuni articoli. Il problema è che per mettere d’accordo il diritto all’autodeterminazione dei malati e le indicazioni dell’Halakhà, si è deciso di ricorrere a un escamotage dotando i ventilatori di un timer. Di tanto in tanto,dunque, i malati o i loro fiduciari devono confermare la volontà di riaccendere la macchina – i resoconti giornalistici parlano di un intervallo di 24 ore – altrimenti si ferma automaticamente. In questo modo nessuno deve sobbarcarsi l’onere psicologico di staccare la spina e il divieto religioso di interferire con la vita è salvo. Per il Sabbath gli ebrei ortodossi adottano una strategia simile, utilizzando scaldavivande semiautomatici per non compiere attivamente i gesti di accensione e spegnimento. Anche se ha ricevuto qualche commento benevolo – per esempio sul British Medical Journal – questo approccio alle tematiche di fine vita appare strampalato a chiunque non sia di religione ebraica e probabilmente anche a molti ebrei. Per quanto i parlamentari italiani siano ben provvisti di fantasia, difficilmente arriveranno a tanto. Ma la storia della legge 40 ci ha insegnato che anche noi siamo capaci di grandi pasticci bioetici, per esempio quando tuteliamo l’embrione più del feto. Allora come dovrebbe essere una buona legge sul testamento biologico? La migliore soluzione possibile, secondo il bioeticista cattolico Sandro Spinsanti, è racchiusa in un unico articolo, che potrebbe suonare così: «Quando risulta, in modo certo e documentato, che la volontà di una persona non in grado di intendere e di volere è di non essere sottoposta a un atto medico, eseguire questa volontà non è reato». Spinsanti si definisce “diversamente credente” perché non è disposto a seguire la sua Chiesa su qualsiasi terreno ed è consapevole di avanzare una proposta provocatoria. Il cuore del suo messaggio, però, è serissimo: aggiungere dettagli su dettagli è controproducente. Nascondendo le differenze dietro ad artifici e termini ambigui – come quello di accanimento terapeutico – si rischia di restringere gli spazi lasciati aperti dalla Costituzione, dal codice deontologico e dalla Convenzione di Oviedo. Ma seppure non fosse così, si correrebbe un altro pericolo. Stabilendo rigidamente quali trattamenti medici rientrano nella disponibilità dei malati, e a quali condizioni, si finisce per tradire lo scopo originario della legge, che dovrebbe rendere più personalizzata la morte di ciascuno anziché imporre per legge una morte uguale per tutti.
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