martedì 12 giugno 2007

Eugenia nel paese delle meraviglie

Il testamento biologico stimola molte riflessioni illuminanti (Eugenia Roccella, Testamento biologico: questioni sottili. In mezzo può scapparci lomicidio, Avvenire, 12 giugno 2007). Negli angoli in cui il buio sarebbe preferibile.

È proprio il rapporto tra tecnica e intenzione che i giudici debbono approfondire, nell’indagine sul caso Welby: bisogna appurare se la sedazione somministrata dal dottor Riccio, quella notte di dicembre, è stata volutamente letale o no, cioè se è servita a lenire le sofferenze o a uccidere.
C’è il risultato dell’autopsia. Ma forse è troppo faticoso leggerlo.
In una recente intervista, Marino racconta di aver «sospeso le terapie a malati per i quali non c’era più nulla da fare», quando operava negli Stati Uniti. Secondo il senatore, infatti, lì «prima di tutto viene il consenso informato, espresso direttamente al medico o con un atto notarile». Ma le due affermazioni confliggono tra loro: se per quei malati davvero non c’era più nulla da fare, probabilmente la decisione di non insistere con terapie inutili era una semplice scelta di buon senso contro l’accanimento terapeutico. Il medico, in questo caso, si prende la responsabilità professionale di valutare, insieme al paziente e ai suoi familiari, gli effettivi benefici di una cura, considerando le condizioni di quel particolare malato. Se invece si fa dipendere ogni scelta dal consenso informato, e dunque dalla sola volontà del paziente, che il medico esegue senza bilanciarla con il proprio giudizio e la propria esperienza, si scivola pericolosamente verso un abbandono terapeutico di tipo burocratico.
Commenti sparsi: non è chiaro il conflitto che l’Eugenia riscontra. Il buon senso non basta, bisognerebbe saperlo, a garanzia di una buona pratica medica (spesso non basta a garanzia di alcunché). Almeno, non nel mondo reale. Meglio una cartuccella in cui siano tracciati alcuni limiti (qualcuno li chiamerebbe diritti). L’accanimento terapeutico non è definibile oggettivamente, ma è condizionato dalla volontà (soggettiva) del paziente. Se mi infili una banale aspirina in gola, quello è accanimento terapeutico! Ma l’Eugenia non si fida della “sola volontà del paziente” e chiama in causa il bilanciamento del medico (e perché non del vicino di letto o del cuoco?) e intravede il rischio di abbandono terapeutico di tipo burocratico. In altre parole, se io decido riguardo alle terapie che voglio o non voglio sarei abbandonata al mio destino burocratico?
Una successiva lettera di precisazioni del senatore Marino non è servita a dissipare i dubbi: l'eutanasia consisterebbe, secondo il professore, nella pratica di «iniettare un veleno nelle vene del paziente che esplicitamente lo richiede». Mentre sarebbe tutt'altra cosa la semplice sospensione delle terapie nella fase terminale di una malattia.
Purtroppo la distinzione non è così netta. Sospendere le terapie non vuol dire «accettare la fine naturale della vita»; può voler dire provocarla, anche soltanto per il rifiuto di assumersi pienamente le proprie responsabilità di medico; cioè di qualcuno che deve battersi, al fianco del paziente, contro la malattia e la morte, e non limitarsi ad applicare il consenso informato.
Sulla distinzione non netta non possiamo che concordare: ma per ragioni molto diverse da quelle che Roccella abbozza. Quanto alla fine naturale, avrei davvero bisogno di chiarimenti.
E non posso che ripetere quanto Piergiorgio Welby scriveva: nessun malato vuole morire! Già, nessun malato vorrebbe morire.

Aggiornamento: qui la risposta a un commento di Massimo Introvigne su alcune frasi di questo post.

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