venerdì 4 agosto 2006

La fuga dalla scienza e gli adescatori culturali

A morte la noia!
editoriale di Carlo Bernardini su Sapere

Le gazzette stanno fornendo dati allarmanti sulla “fuga dalla scienza” della popolazione mondiale nel suo complesso e di quella giovanile in particolare. I grandi quotidiani riservano a questo problema – che non è nuovo ma sembra registri una accelerazione – notizie di agenzia appena commentate oppure servizi con dati statistici e diagrammi, se dispongono di pagine dedicate alla scienza. Anche la rete fornisce qualche dato allineato a quelli della carta stampata. Ma, in questo risveglio d’attenzione, alimentato da un sorta di rivalsa sotteranea e inespressa, mi sembra di scorgere una novità inedita che, forse, merita una riflessione: una discreta quota dei giovani intervistati nei sondaggi dichiara di non scegliere destini scientifici perché “la scienza – e il suo insegnamento – è noiosa”. Certamente la moltitudine che lo pensa ma si vergogna di dirlo si sente rinfrancata: mal comune mezzo gaudio. Questa attribuzione di noia al pensiero scientifico e al modo di illustrarlo è delle più preoccupanti: è un po’ come dire che un certo cibo, pur nutriente e a portata di mano, è però immangiabile perché ha un pessimo sapore; o che una bellissima casa è inabitabile perché situata in un posto troppo rumoroso; o che un partner bellissimo è insopportabile perché straparla; e così via: di esempi ne trovate a volontà. Sapevamo che la scienza è difficile, che non offre posti di lavoro mirabolanti, che non è molto popolare; ma “noiosa” è un attributo assai più insidioso. Il giudizio che si legge nei media non è analitico, ma sembra di poter dire, dalle scelte che i giovani fanno, che le scienze biologiche abbiano quotazioni decisamente migliori di matematica, fisica e chimica. In questo, c’è una certa analogia o similitudine con le scelte della televisione e dei documentari: nessun teorema di Gödel farà audience come l’erotismo del colibrì...
C’è del vero, in questa noia? Mi pesa ammetterlo, ma devo dire di sì. Se non altro per esperienza personale che già, in altre occasioni, non ho nascosto. Mai avrei fatto il fisico se non avessi avuto modo di sapere in tempo che la fisica non è quella del manuale scolastico. Ebbene, non ho mai cambiato idea: i manuali di matematica, di fisica, di chimica sono il peggior esempio di “letteratura illegibile”: l’unico motivo per cui si comprano e si leggono (ovvero, se ne legge il minimo indispensabile) è che a una certa età, da adolescenti, siamo obbligati a farlo, pena l’esclusione dalla comunità civile. Non posso nemmeno immaginare senza un brivido una improponibile proposta: quella di consentire ai ragazzi la scelta delle materie che intendono studiare nella scuola avendo la possibilità di scartarne un paio. In effetti, questo è ciò che succede al momento del passaggio all’università; e non è difficile trovare i dati relativi alle preferenze. Probabilmente, in ogni istituto scolastico resterebbe un numero irrisorio di aspiranti alle discipline scientifiche. Su questa ripulsa, che serpeggia da prima che i sondaggi la rendessero quantitativamente verificata, hanno poi gioco facile gli adescatori culturali che, con il passare degli anni, sono sempre più agguerriti e motivati e indirizzano verso “specialità” inventate che, nella maggior parte dei casi, buttano carne fresca nel mercato.
Penso che faremmo bene a prendere sul serio l’ipotesi della noia, a esaminarne le cause e a fare qualcosa di serio per contrastane la diffusione. Mi viene sempre in mente Galilei, che si preoccupò del problema facendo passi giganteschi verso possibili soluzioni. Galilei semplificò enormemente il linguaggio, il che era compatibile con lo stato dell’arte all’epoca sua. Ora, si potrebbe pensare che il processo di semplificazione dei linguaggi sia la chiave di volta non solo della comprensione ma anche dell’interesse dei problemi scientifici. Ma non è detto che sia così: sta di fatto che il linguaggio delle scienze non ha mai raggiunto il discorso comune e resta uno specialismo con ambito di impiego molto particolare. Badate: non è così per tutti i linguaggi costruiti in ambiti colti per addetti ai lavori. Parole come “metafisica”, “trascendenza”, “anima e spirito”, “coscienza”, “carisma” ecc. hanno significati che molta gente è in grado di rendere correttamente in “parole povere”. Ma provate a chiedere che cosa vuol dire, in parole povere, “proporzionale”, “lineare”, “accelerazione”, “invarianza”, “asintotico”, “similitudine”, ecc.: vi accorgerete del tempo che si è perso facendole ripetere per anni ai nostri studenti qualsiasi. Dunque, elaborare una “rappresentazione mentale” efficiente che richieda una lingua sconosciuta può essere così faticoso da far dire a qualunque ragazzo l’efficace onomatopea “uffa”. Chiudendo così il canale del “godimento intellettuale”, senza il quale la mente si ritira stanca nei suoi sogni e lì insegue fantasmi e chimere.
Ci vuole un guizzo di creatività. Come ho detto tante volte, la storia delle idee con il superamento delle idee sbagliate ma ingenue a favore di quelle corrette ma complesse è piena di gustosi casi, vivibili e familiari. Ma poi, un imperativo che si impone e che riferisco a nome di molti maestri scomparsi, è che se non si introduce una buona dose di pensiero euristico, qualitativo e pittoresco, non si può attivare quel “piacere di capire” che è l’unico antidoto contro la noia. Attenzione! Non sto facendo l’apologia della divulgazione: non possiamo certo dire che, salvo Galilei, i divulgatori abbiano fatto molta strada. No, qui sto parlando di una trasformazione del materiale accademico in materiale più problematico, più vivace, che scopra non il solo “come si fa” ma il “perché lo si fa così”. Molti insegnanti hanno un’ossessione per il rigore e ne fanno un precetto normativo fuori del quale non c’è nulla. Ma è un imbroglio: gli insegnanti rigorosi che non ammettono una varietà di modi di capire sono in realtà dei burocrati dell’insegnamento che stanno mettendo la loro professionalità al riparo dalle avventure intellettuali. E i ragazzi, invece, amano molto di più l’avventura che non la vita burocratica. Un mio compianto maestro e amico diceva di quegli insegnanti: sono “funzionari della fisica”.

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