Uno dei più noti bioeticisti degli Usa, Arthur Caplan, ci racconta la conclusione di un caso in cui la scelta tra principi etici contrapposti si è rivelata particolarmente difficile («Right resolution for difficult case», MSNBC, 16 agosto 2006). La storia è quella di Starchild Abraham Cherrix, un giovane americano di sedici anni, cui l’anno scorso è stato diagnosticato il Morbo di Hodgkin. Dopo un primo ciclo di chemioterapia, che aveva lasciato Abraham calvo, febbricitante, in preda alle nausee ed estremamente debilitato, il cancro si era ripresentato, ma il ragazzo – d’accordo con la propria famiglia – si era rifiutato di sottoporsi a un secondo ciclo, preferendo ricorrere a una cura erboristica messicana (di efficacia peggio che dubbia) e alla preghiera. Lo Stato della Virginia aveva quindi cercato l’autorizzazione di un tribunale per iniziare un trattamento forzoso.
La corte si trovava di fronte a un chiaro dilemma: da un lato la scienza medica assicura che, dopo tre cicli di chemio, col supporto della radioterapia, il tasso di guarigione per il Morbo di Hodgkin è dell’85-90%; dall’altro il paziente, nonostante la giovane età, si è rivelato maturo e consapevole – né d’altra parte si vede come forzare un sedicenne a intraprendere una cura di quel genere contro la sua volontà.
Il giudice Glen Tyler ha quindi escogitato un compromesso: un oncologo che gode della fiducia del ragazzo seguirà gli sviluppi del caso, proponendo eventualmente una terapia basata solo sulle radiazioni, mentre Abraham sarà libero di proseguire le cure ‘alternative’. Caplan conclude il suo resoconto notando come l’intervento dello Stato abbia determinato questo esito positivo della vicenda, pur senza danneggiare i valori della famiglia.
giovedì 17 agosto 2006
Un intervento statale media tra scienza e autodeterminazione
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