venerdì 30 maggio 2008

Il decreto del giudice Guido Stanzani

Il Presidente della sezione (del tribunale di Modena) Guido Stanzani, in funzione di Giudice Tutelare, ha pronunciato un decreto in risposta ad un ricorso presentato in data 9 maggio (sul caso di Vincenza Santoro Galani, di cui si parla e si sparla da qualche ora).

Per chi volesse leggere il decreto (anche per salvarsi dal montante livore nei commenti e dalle amletiche questioni: giusto/sbagliato, testamento biologico sì/no).

Riporto soltanto la parte finale, le prescrizioni indicate dal giudice.

a) L’incarico è a tempo determinato: compimento degli atti sub (b).

b) L’amministratore di sostegno viene autorizzato a compiere, in nome e per conto della beneficiaria, le seguenti operazioni:

- negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare ventilazione forzata e tracheostomia all’atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l’evolversi della malattia imponesse, la specifica terapia salvifica;
- richiesta ai sanitari di apprestare, con la maggiore tempestività e anticipazioni consentite, le cure palliative più efficaci al fine di annullare ogni sofferenza alla persona.

c) L’amministratore di sostegno dovrà quotidianamente tenersi in contatto con l’Ufficio del Giudice Tutelare per informare sull’evolversi della situazione segnalando mutamenti che comportino l’esigenza di eventuali provvedimenti e, comunque, relazionando per iscritto all’esito dell’espletamento del demandatogli incarico di sostegno.

Decreto esecutivo per legge.

Modena, 13 maggio 2008

IL PRESIDENTE - GIUDICE TUTELARE
Dr. Guido Stanzani

martedì 27 maggio 2008

Una gigantessa del pensiero

Non è da tutti, ne converrete, dimostrare in cinque parole che qualcosa su cui i filosofi si sono affannati per secoli, dedicandogli veglie interminabili e tomi smisurati, semplicemente non esiste. In tanta impresa è riuscita il neo-sottosegretario ai temi etici, Eugenia Roccella, che in un’intervista concessa ai giornali della catena del Quotidiano Nazionale ci fornisce con scioltezza la prova logica dell’inesistenza, niente di meno, dell’autodeterminazione umana. Leggere per credere (Massimo Pandolfi, «Roccella: “Combattiamo la ‘pulizia etnica’ dell’embrione”», 26 maggio 2008, p. 8):

Lei parla spesso di autodeterminazione...
«Va tanto di moda quando si parla di inizio o fine vita. È una balla: noi non nasciamo autodeterminati, dipendiamo sempre dagli altri. Cresciamo nel corpo di un altro, in totale dipendenza da un altro».
Il giornalista tenta di opporre una fievole resistenza alla potenza dell’argomento, oltretutto così virilmente esposto («È una balla»); ma la Roccella lo sovrasta intellettualmente di dieci spanne, e lo costringe al silenzio:
Ok, però poi si nasce, si diventa grandicelli, e...
«E se lei domattina va da solo in Giappone e non conosce le lingue è come un disabile: ha bisogno dell’aiuto di qualcuno, altrimenti si sente perso o no? È la prova che non siamo autodeterminati».
In questo, che i manuali di filosofia chiameranno un giorno l’Argomento del Turista in Giappone, la Roccella fa leva – come si è visto – su una ineccepibile dicotomia: o l’uomo è sempre, in ogni circostanza, capace di autodeterminarsi, oppure non lo è mai. Basta a questo punto un singolo controesempio – il turista in Giappone, appunto – e il tristo sogno dell’autodeterminazione umana, anche parziale, crolla miseramente. (Consiglio i lettori di non avventurarsi in estensioni avventate dell’argomento, come la dimostrazione dell’inesistenza dell’intelligenza – «un turista che ignora il thailandese non capirebbe un tubo di quello che gli dicono in Thailandia, ergo gli uomini non sono dotati di facoltà intellettive»: solo menti superiori possono maneggiare sensatamente questa logica sopraffina.)
Come cambia la nostra vita, ora che è crollato uno dei fondamenti della nostra civiltà morale e giuridica? Niente paura: pastori sapienti e benevoli (che incidentalmente sono anche amici della Roccella) hanno da tempo organizzato tutto per supplire alla nostra incapacità di autodeterminarci. Basterà seguire fiduciosi e senza discutere le direttive di questi giganti – o di queste gigantesse, come Eugenia Roccella – del pensiero.

L’Europa che non c’è e quella che non fa comodo avere

Un commento di straordinaria portata appare questa mattina su Il Tempo di oggi. Dall’estero nessuna lezione, please, ovvero Il punto di Giuseppe Feyles.
Il punto di Feyles sistema tutti quelli che osano aprire la bocca sull’Italia, perché animati da invidia o da un qualche sentimento avverso, secondo lui (sembra come quello studentello che è perennemente in bilico tra il 5 e il 6 ma giustifica le oscillazioni verso il 5 con “la professoressa ce l’ha con me”, “è morta mia nonna”, “io ho risposto bene a tutto”, “non ha capito lo spirito del mio tema”, e così via – ora può anche succedere, e magari pure spesso; ma è decisamente improbabile che il nostro studentello non abbia mai alcuna responsabilità).

Qualche ministro di Zapatero ci apostrofa? Pazienza, mica dobbiamo viverci in quella terra arida. Un europarlamentare di sinistra insulta gratis? Niente paura, è il livore dei perdenti. Un intellettuale di qualche paese poco amato dal sole ci bacchetta per un nostro presunto razzismo? Non importa (non del razzismo, ma dell’accusa falsa): diventano acidi perché gli manca il nostro cielo azzurro.
Il fatto è che il tempismo con cui il nuovo governo è stato messo sulla graticola desta molti sospetti. Sa molto di pregiudizio. D’altro canto, un antico complesso d’inferiorità ci porta a sopravvalutare ogni fiato che venga da oltreconfine (a proposito, ma esistono ancora i confini?). Invece, non ci dovremmo far impressionare dalle bordate ostili che vengono dagli stranieri, perché loro non sono meglio di noi. Non lo sono stati ieri, nella storia.
Feyles elenca poi qualche esempio storico da bignami (del tipo Costantino era un imperatore buono o i barbari non usavano coltello e forchetta).
Tanto per fare un esempio, mentre a Roma, a Firenze, a Napoli si coltivavano la cultura e l’arte universale, a Londra, a Parigi, a Madrid e Lisbona si commerciavano gli schiavi e si fondava il colonialismo armato.
Per poi sferrare l’attacco odierno contro la Francia e l’Europa settentrionale, e contro la Spagna, blasfema e rovinafamiglie (sic).
Quando arriva a tirare in causa l’Europa e la coscienza vien voglia di dargli qualche consiglio (immancabile la voce del Papa; che stia a Roma, il Papa, purtroppo ce ne accorgiamo ogni giorno).
Ma non sono meglio di noi neppure oggi, come dimostrano le violenze delle periferie parigine o delle metropoli del nord Europa. Quanto alla Spagna, paese in prima fila nel distruggere i fondamenti della famiglia o nel facilitare l’aborto, non può dare lezioni di civiltà. I più deboli di tutti, infatti, allo stesso modo di poveri e immigrati, sono i neonati. L’Europa è importante, va seguita e costruita, ma senza smarrire la propria identità storica. Se l’Europa rinnega le proprie radici, ad esempio distruggendo il patrimonio cristiano, non per forza dobbiamo stare a sentirla.
Piuttosto, è un’altra la voce che andrebbe ascoltata, prima di agire anche a livello politico: la si potrebbe chiamare coscienza, se non fosse una parola frusta, ormai priva di significato, o confusa col generico prurito di una piccola morale. La coscienza invece è il luogo dove vivono i grandi ideali. Ascoltarla significa confrontarsi con l’innata tendenza al vero, al bene, al bello che sta nel fondo di tutti gli uomini. E’ un processo delicato, che ciascuno deve fare in prima persona, ma non necessariamente da solo. Infatti, anche se può sembrare paradossale, spesso ascoltare la coscienza significa ascoltare la voce di un altro, che meglio incarna ed esprime quelle esigenze di verità e giustizia. Tanto per fare un esempio, la voce del Papa. Che, tra l’altro, sta a Roma, mica a Madrid o Bruxelles.
Geniale il passaggio dal facilitare l’aborto alla debolezza dei neonati: può essere che a forza di ascoltare Emilio Fede gli si siano confuse le idee.
Non so voi, ma io non avevo idea di chi fosse Feyles. Sono andata a cercare; e il risultato è piuttosto interessante.

Evito di commentare le sue parole sulla Spagna perché mi sembra superfluo. Sulle radici cristiane abbiamo già detto.
Funambolico il ragionamento sul Papa: prima di agire a livello politico, dice Feyles, bisogna ascoltare la coscienza – luogo dei grandi ideali – che tende al vero; la coscienza è fatta di ascolto: e sapete di chi? Di chi?
Quanto all’importanza dell’Europa: “non per forza dobbiamo stare a sentirla” riguarda forse quanto ha stabilito (o meglio confermato per l’ennesima volta) la Corte di Giustizia Europea sulla sorte di Rete 4? Insomma, se l’Europa ci dice quanto siamo bravi va bene; se ti toglie la poltrona da sotto al culo va decisamente meno bene, vero Feyles (forse è anche il nome ad infastidirlo: Europa, brutti ricordi...)? Non è da gentiluomo, però, questa doppiezza fondata sui propri meschini interessi (ma forse sbaglio, è nel nostro interesse mantenere un canale tanto inutile e mediocre, è per il nostro bene).

lunedì 26 maggio 2008

L’aborto è un omicidio e la Chiesa è l’unica guida morale

C’è un tizio che ha deciso di scrivere una lettera su uno dei temi del momento (insieme al dilemma grazia sì/grazia no alla Franzoni e a qualche scandalo sessuale).
Questo tizio ha concentrato in poche righe una quantità di banalità, di quelle che già conosciamo. La Chiesa come guida morale, il mito della 194 (ma per chi sarebbe tale, non è facile capire), l’aborto come immenso e necessario dolore, l’insinuare dubbi sulle relazioni ufficiali (si dice che..., ma non si sa per certo), il pietismo ipocrita per il peccatore (e la durezza verso il peccato, a sancire una schizofrenia della responsabilità). E, ovviamente, l’affermazione apodittica: l’aborto è omicidio. Punto (lo scrive lui stesso, punto).
Su un dettaglio il nostro ha perfettamente ragione: che per difendere l’aborto e la liceità di farvi ricorso richiamare la clandestinità o altre sciagure è inutile. Se l’aborto è un omicidio c’è poco da sperticarsi sulle mammane e sulle ingiustizie precedenti la 194 o compiute oggi in Paesi dove l’aborto è illegale.
Come al solito però ritiene superfluo dimostrare quel se. Per lui – e per tanti, tantissimi – l’aborto è omicidio. Punto.
Se io rispondessi: l’aborto non è omicidio. Punto – sarebbe un buon avvio di una discussione ne’?
Questa letterina lascia emergere due aspetti onnipresenti: l’uso e l’abuso di affermazioni infondate e la fallacia della difesa della 194 in base ad argomenti concessivi. Chi vuole difendere la libertà di fare ricorso all’aborto deve discutere la premessa. Ciò detto il nostro, naturalmente, dimentica una differenza rilevante tra l’omicidio dei panettieri e l’omicidio dell’aborto: che nel primo caso assassino e vittima non sono nello stesso corpo (questo fa una qualche differenza per la solita storiella che seppure l’embrione avesse un diritto alla vita bisognerebbe ancora dimostrare che la donna avrebbe il dovere di preservarlo offrendo il suo corpo).
La conclusione che la Chiesa sia “l’unica istituzione” etc. etc. è ridicola, sintomo di una cecità ignorante e strafottente. Il declino è di chi sacrifica intelligenza e buon senso sull’altare della ipocrisia clericale.
La letterina completa è qui sotto.

C’è ancora qualcuno che ancora segue la Chiesa

Caro Beppe [Severgnini], ho appena letto una lettera che tu hai pubblicato di un lettore che si chiede se qualcuno segue ancora quello che dice la Chiesa in materia di aborto (“Aborto: qualcuno ascolta ancora la Chiesa (a parte i politici)?”, F. Zilberstein, 21 maggio). Beh, mi dispiace per lui, ma sì, ebbene sì, c’è qualcuno che ancora segue la Chiesa per quello che dice sulla vita in generale, quindi su divorzio, aborto, eutanasia e quanto altro. Bisogna sfatare il mito della 194? Io penso di sì. Non si può essere orgogliosi di una legge che permette che si compia un omicidio, peraltro il più efferato, nei confronti di chi non può difendersi. Questo vuol dire avercela con le donne? No, assolutamente. Conosco donne che hanno abortito, ancora fortemente segnate da quella terribile esperienza. Ma, come dice la Chiesa, occorre distinguere tra peccato (sempre da condannare) e peccatore (sempre da comprendere e perdonare). Ora l’aborto è un omicidio. Punto. Poi la questione la si può condire a piacimento; si può dire che la 194 ha dimezzato gli aborti (ma ci sono altri dati che dicono il contrario), si può dire che ha ridotto gli aborti clandestini (ma anche questo è tutto da verificare). Ma io mi chiedo: anche se fosse? Se io liberalizzo gli omicidi di panettieri (mi scuso con la categoria, ovviamente) naturalmente non ci saranno più o diminuiranno drasticamente gli omicidi illegali di panettieri; ma non mi sognerei mai di dire che uccidere i panettieri è una cosa positiva perché ha ridotto la clandestinità! Facendo un discorso più ampio, penso che la Chiesa sia l’unica istituzione al mondo che parli a un livello alto, difendendo valori, indicando una strada di crescita dell’umanità fatta di scelte impegnative, ma non certo impossibili. Vedo che molti preferiscono l’edonismo spicciolo, togliere di mezzo qualsiasi difficoltà, anche quelle connesse con un evento, che poi si rivela meraviglioso, come aspettare un figlio. Ma così l’umanità resta condannata a un inevitabile declino e io non mi rassegno a vivere in una società così miope. Saluti.

Claudio D’Auria, cdauria@libero.it

giovedì 22 maggio 2008

Il punto più debole

Esemplari le parole di Angela Azzaro su Liberazione di ieri («Legge 194 la storia non si cancella», 21 maggio 2008, p. 11):

Tante donne, pur giustamente stufe di vedersi schiacciate sempre nel solito dibattito, dicono che oggi non si può pensare a un miglioramento della legge 194. Metterci le mani significherebbe giocoforza renderla ancora peggiore e oggi va invece difesa così come è.
Ma c’è un altro terreno su cui si può riprendere il dibattito, contrastando l’idea della vita come dogma, principio astratto, come qualcosa che prescinde la relazione. È questo il punto più debole. In tante che difendono la legge in fondo pensano che l’interruzione di gravidanza è un omicidio. Dovuto. Voluto. Ma pur sempre un omicidio. Un male necessario. Non è così. Ma bisogna avere il coraggio di dirlo, di comunicarlo, di uscire dalla gabbia che ci è stata costruita intorno.
Il punto chiave è precisamente questo; è da qui che bisogna ripartire, per superare l’orrendo luogo comune («l’aborto è comunque una tragedia») che sta erodendo dall’interno la libertà di abortire, più della stessa obiezione di coscienza e degli attacchi selvaggi degli integralisti.

Embrioni e rifugiati

Da Articolo 10___rifugiati e altro, 22 maggio 2008:

Da molto tempo non mi succedeva di farmi raccontare da una rifugiata la “sua storia”. Ancora una volta tante violenze, tante atrocità. […]
Finita l’intervista mi ha preso una grande rabbia. Gente sensibile ai diritti dell’embrione non sa nulla di storie come questa. E riesce anche a dire che i richiedenti asilo devono essere imprigionati in quanto potenziali impostori. Che non hanno diritto a un ricorso dopo che una Commissione frettolosa decide della loro vita, quando va bene, in venti minuti. O peggio, per ulteriore beffa, che possono fare ricorso, ma intanto vanno rimandati al loro Paese. A farsi ammazzare.
Da leggere tutto.

mercoledì 21 maggio 2008

Solo l’Europa può salvarci dalla legge 40/04

Conferenza stampa del 23 maggio 2008, ore 11.30
Sala della Stampa Estera, via dell’Umiltà 83/C

La legge 40/2004 viola il diritto alla salute, il diritto alla salute riproduttiva e all’equità di trattamenti sanitari che dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini europei (indipendentemente dallo Stato membro di residenza o in cui si richiede la prestazione).
Le violazioni di tali diritti emergono con evidenza dalle relazioni sugli effetti della legge 40/04 presentate al Parlamento: le conseguenze dell’applicazione di una norma dello Stato Italia sono certificate e documentate in modo ufficiale.
Risulta palese la violazione di molte norme del diritto comunitario derivante: dall’esclusione di molti cittadini all’accesso delle tecniche al divieto di fecondazione eterologa; dall’impossibilità di revocare il consenso dopo la produzione degli embrioni (e non fino al momento dell’impianto come sanciscono le leggi di altri Paesi); dal limite di produzione di 3 embrioni; dal divieto di accesso per tutti coloro che desiderano una diagnosi di preimpianto non invasiva per garantire la salute della donna e del nascituro.
Durante la conferenza verranno forniti i dettagli sulle iniziative già avviate e sui requisiti necessari per avviarne.

Interventi
Coordina: Frances Mary Kennedy, giornalista
Chiara Lalli, bioeticista
Filomena Gallo, avvocato, Presidente di Amica Cicogna
I Presidenti e i Segretari delle Associazioni: Marco Cappato, Federica Casadei, Monica Soldano, Laura Pisano, Patrizia Battistini, alcuni esperti.
A seguire gli interventi di alcuni cittadini italiani discriminati dalla legge 40/04.

(seguirà comunicato stampa).

Dignità o libertà?

Massimo Adinolfi interviene dalle colonne di Left WingPinker, Ratzinger e la dignità del relativo», 19 maggio 2008) sull’articolo di Steven Pinker, «The Stupidity of Dignity», di cui anch’io mi ero occupato qualche giorno fa. Adinolfi concorda con Pinker nel respingere le pretese – del resto indifendibili – che Leon Kass e gli altri membri del President’s Council on Bioethics avanzano in nome della difesa della dignità umana, ma dedica poi il suo articolo a criticare uno dei punti fondamentali del discorso di Pinker: che anche i casi in cui il concetto di «dignità» appare giocare un ruolo positivo nella difesa di valori che percepiamo come irrinunciabili, sono assai meglio giustificabili nei termini liberali classici del rispetto dell’autonomia personale. Nota a questo proposito Adinolfi:

Proprio per questo, però, qualche dubbio rimane. Anzitutto nel modo in cui vanno trattate le persone che si ritiene non siano in condizione di esercitare in autonomia le scelte circa il trattamento da riservare loro. Per esempio i bambini o certi tipi di malati. È difficile, affidandosi al solo principio di autonomia, rispettare sempre, in costoro, la loro dignità.
Qui, naturalmente, Adinolfi ha ragione: il principio di autonomia è malamente applicabile a minori e ad altre persone incapaci. Ma dobbiamo per questo sostituirlo con la considerazione della «dignità umana»? In realtà, tertium datur: il principio giuridico che sembra prevalere nel trattamento degli incapaci è quello del rispetto del loro interesse; e questo principio, oltretutto, parla ancora il linguaggio delle preferenze individuali, che non è molto distante da quello dell’autonomia. Così, il buon genitore elimina ogni causa di fastidio per il neonato, perché questi – anche se non è in grado di comunicarlo né di fare alcunché a riguardo – preferisce l’assenza di dolore al dolore; e non impone al figlio un nome ridicolo, perché sa che una volta divenuto adulto il ragazzo quasi certamente preferirà averne ricevuto uno normale. Ci sono, è vero, i casi in cui di preferenze non si può parlare, e in cui solo la dignità sembra rimanere in gioco; ma mi pare che qui la violazione della dignità valga sempre e solo in quanto segno di qualcos’altro. Quando sorprendiamo l’infermiere della casa di cura a insultare il disabile, che pure non lo può capire e non soffre per quello che sente, e anzi neppure può formarsi il concetto di ciò che è un insulto, sappiamo con virtuale certezza che l’incuria e maltrattamenti assai più concreti, o persino omicidi, stanno per verificarsi; e per questo – giustamente – lo cacciamo, non per l’offesa a un principio astratto e maldefinito.
Mi pare quindi che possiamo anche qui evitare di affidarci totalmente al concetto di dignità, con tutte le sue incongruenze e i suoi pericoli. È interessante che anche dal fronte opposto (quello degli estimatori di Kass, per intenderci) si accendano talvolta polemiche contro l’uso del concetto, come nella denuncia tante volte ripetuta di chi reputa le vite di persone affette da patologie gravissime «indegne di essere vissute». Denuncia che certo travisa malignamente le intenzioni (indegne per chi?) e rimane diabolicamente indifferente alle torture di quei malati; ma che segna forse un punto nel cogliere un uso linguistico non del tutto coerente con la difesa pura e semplice dell’interesse del malato.
Quando poi l’incapacità della persona è acquisita (per esempio negli anziani e nei moribondi), ecco che il principio di autonomia si applica di nuovo in pieno: le mie preferenze, la mia volontà si estendono a chiedere rispetto al di là del campo della mia coscienza e della mia stessa vita. Posso imporre così che la mia dignità sia rispettata rifiutando cure invasive che violano la mia integrità corporea, ma posso anche acconsentire, per esempio, a che il mio corpo finisca in un teatro anatomico, esposto per una mattinata alla curiosità, all’indifferenza o alla nausea delle matricole.
Prosegue Adinolfi:
C’è poi almeno un altro caso difficile, quello delle persone la cui autonomia è stata ridotta in forza della legge: un carcerato ha certo diritto a un trattamento umano, rispettoso della sua dignità, ma non può esercitare autonomamente la scelta del trattamento: non, almeno, alla pari di un uomo libero. E ad esempio la tortura non sembra ledere l’autonomia dell’ergastolano tanto quanto lede la sua dignità.
Qui, se comprendo bene, l’argomento di Adinolfi è il seguente: siccome l’autonomia di un carcerato è già dimidiata, il rispetto dei suoi diritti può fondarsi allora soltanto su una capacità che nessuno può assottigliare: la sua dignità, appunto. A questo si può rispondere, però, che la considerazione per l’autonomia altrui non è mai questione di «tutto o niente»: un sistema penale coerente può essere costruito attorno all’idea che la diminuzione della libertà del reo dev’essere la minima possibile, compatibilmente col rispetto dei diritti degli altri individui; e la tortura è inutile a promuovere la difesa della libertà altrui – anzi decisamente controproducente – o se si preferisce, viene a infrangere un dominio di autonomia talmente intimo da risultare in ogni circostanza irrinunciabile. Viceversa, esistono sicuramente alcune concezioni della dignità umana che rimarrebbero offese proprio dalla visione di un essere umano in gabbia; addirittura, per la nostra cultura può forse risultare più dignitosa una punizione corporale o comunque dolorosa – l’espiazione attraverso la sofferenza è un tema ancor oggi potente, anche se messo in sordina dal perdonismo tipico di una società per varie ragioni avversa alla responsabilità personale – di una lunga, noiosa detenzione in un carcere modello.
Forse non c’è bisogno neppure di pensare a casi così estremi. Nel nostro attuale ordinamento giuridico, la legge può dichiarare nulli ab initio contratti privati che siano lesivi dei diritti fondamentali dei contraenti, anche qualora siano stati stipulati in piena autonomia […] chi ad esempio anteponesse l’autonomia individuale a ogni altro valore, troverebbe ingiustificata la limitazione del diritto soggettivo di ciascuno di darsi in schiavitù.
Ma dandosi in schiavitù l’individuo negherebbe paradossalmente la propria autonomia: da quel contratto non potrebbe mai recedere, neanche cambiando idea. Il valore in gioco è di nuovo esattamente la libertà, non una dignità in nome della quale fin troppi vorrebbero negare il diritto di stipulare contratti fra adulti consenzienti.
Di nuovo Adinolfi:
Pinker in realtà prevede il caso della volontaria rinuncia alla propria dignità, ma si preoccupa solamente delle “esternalità negative” di simili comportamenti: fare violenza al proprio corpo potrebbe per esempio indurre per imitazione comportamenti analoghi. Ora, posto pure che ci si debba preoccupare soltanto delle conseguenze, Pinker si limita a concedere leggi restrittive solo se fossero empiricamente dimostrati effetti nocivi, ma è chiaro che il suo punto di vista non giustifica una simile concessione. Cosa infatti c’è di male se altri, a causa del cattivo esempio, tengono comportamenti autolesionisti, dal momento che a loro volta agiscono in piena autonomia?
Qui Adinolfi ha male interpretato Pinker: le esternalità negative di cui parla lo studioso americano sono quelle a danno di terzi. Non si tratta di qualcuno che imita un comportamento autolesionista, ma di chi da un comportamento autolesionista trae ispirazione e incitamento a ledere:
Could there be cases in which a voluntary relinquishing of dignity leads to callousness in onlookers and harm to third parties – what economists call negative externalities? In theory, yes. Perhaps if people allowed their corpses to be publicly desecrated, it would encourage violence against the bodies of the living. Perhaps the sport of dwarf-tossing encourages people to mistreat all dwarves. Perhaps violent pornography encourages violence against women.
In conclusione, spero di non aver dato l’impressione di essere dominato da un divorante esprit de système. Qui non è questione di coerenza teoretica, di «idee platoniche che si compiacciono di mostrarsi incompatibili»: accolgo volentieri l’ammonimento implicito contenuto alla fine di un post che Malvino ha dedicato alla questione. E sono in fondo d’accordo con quanto dice lo stesso Adinolfi, alla fine del suo articolo: «è stupido credere che dimostrare la relatività di un concetto o di un principio equivalga a dimostrare la sua arbitrarietà». La dignità «è moralmente significativa» (e stavolta le parole sono di Pinker!): non è arbitraria, ha radici profonde nel modo in cui percepiamo il mondo, i nostri simili, noi stessi. L’appello al rispetto della dignità può, per questo, avere un ruolo prezioso nel discorso persuasivo, che spesso ha successo là dove il freddo appello ai diritti astratti non riesce a motivarci. E può senz’altro permanere nei margini dei nostri sistemi giuridici, là dove mancano richieste di nuove libertà, e dove imporre una completa coerenza risulterebbe quindi per il momento troppo costoso, rischiando di alienare le simpatie per gli stessi principi a cui teniamo. Ma nelle questioni fondamentali no: proprio perché relativo, il senso della dignità si trasforma inevitabilmente in prevaricazione, nell’imposizione violenta di una visione personale del mondo – dal divieto di mangiarsi un cono gelato in santa pace, su su fino alla negazione di ogni speranza di cura a malati gravissimi. Sono certo che Massimo Adinolfi è sensibile quanto me a questa minaccia.

La storia riletta e aggiornata della principessa

Octavia Monaco, talentuosa e onirica illustratrice, propone un’interessante rivisitazione de “La principessa sul pisello”, celebre favola di Hans Christian Andersen. O meglio: sostiene di raccontare e illustrare la vera versione della fiaba che ha bisogno, come spesso succede ai racconti tramandati, della rettifica circa alcuni dettagli che il tempo ha confuso (“La vera principessa sul pisello”, 2008, Orecchio Acerbo editore).
La “vera” principessa non si fa intimidire dagli ostacoli frapposti tra lei e il vero amore – che non è quel principe azzurro da espugnare con condiscendenza e remissività tipicamente femminili (o solo fiabesche?). La vera principessa disegnata da Octavia è la protagonista una rilettura in chiave liberale della prova d’amore (oltre che del sangue blu) imposta alla fanciulla, costretta a dormire su un pisello nascosto sotto a una pila di materassi per verificare se la sua pelle sia tanto sensibile (quindi regale) da accorgersi dell’intruso. In entrambe le versioni la principessa passa una notte insonne: ma se nella favola tradizionale le sue occhiaie erano l’anticamera e la condizione necessaria per un matrimonio reale, nella versione “vera” la principessa se ne va sdegnata, senza risparmiare la sua collera verso lo smidollato principe e la potenziale e arcigna suocera: “Che [il principe] sia così impegnato da disdegnare una principessa come me? Così preso nelle sue occupazioni da affidare alla vecchia regina il compito di scegliere la sua futura sposa?”, si domanda la fanciulla prima di voltare le spalle al palazzo, non senza essersi presa una dispettosa vendetta.

(DNews, 21 maggio 2008)

martedì 20 maggio 2008

‘Brutta e povera Italia’

Così si intitola il pezzo scritto sul domenicale de El País (18 maggio 2008) da Javier Marías.
Da vergognarsi (se fosse rimasto spazio).

Pero la palma en esto* se la llevan los políticos italianos que acaban de vencer en las recientes elecciones, los muy palurdos Berlusconi y Bossi. De sus dos anteriores etapas al frente del Gobierno –es deprimente que un país exquisito en tantos aspectos haya votado a semejante hortera ¡por tercera vez!–, del primero se conocen ya toda suerte de chascarrillos sin gracia y de mal gusto. El segundo no tiene reparo en hablar de fusiles calientes para combatir, cañonazos para las pateras y recurrir a otras metáforas bélicas –bueno, esperemos que sólo sean metáforas, que no lo sé–. El casi octogenario alcalde de Treviso, Gentilini, no tiene inconveniente en mostrarse orgulloso de lo que aprendió de la “mística fascista” y aplicarlo: el fascismo de Mussolini, aquel aliado de Hitler, aquel dictador que llevó a Italia al hundimiento. Y el nuevo alcalde de Roma, Alemano, no se corta a la hora de manifestar que no soporta a los gitanos y que va a arrasar sus campamentos por las buenas. (Corsivo mio)
*Se non fosse chiaro [esto] non è nulla di lusinghiero...

ps
Mi incornicio la copia a me dedicata di Tutte le anime (perché non lo avevo ancora fatto?).

lunedì 19 maggio 2008

L’importanza della diagnosi genetica di preimpianto (intervista a Chiara Piantelli)

Chiara Piantelli è la mamma di Paolo, nato con una malattia gravissima e morto a pochi mesi. Chiara vuole un altro figlio, ma non vuole correre il rischio di avviare una gravidanza destinata ad essere interrotta in seguito ad una diagnosi infausta. Le polemiche sulla legge 40 e sulle linee guida rischiano di far dimenticare gli effetti drammatici di questa legge assurda sulle esistenze delle persone. Sulla salute delle mamme e dei nascituri.
Chiara racconta cosa è successo e cosa vorrebbe.

Sono anche io la mamma di un angelo... Vivo a Roma con mio marito ed il nostro Paolo è volato via il 4 novembre scorso a neanche 4 mesi per una SMA 1 (la forma più grave di atrofia muscolare spinale). Non accetto l’idea che la sua vita sia persa così nel nulla; sto diffondendo nel mio piccolo, a quante più persone possibile, informazioni sulla SMA in particolare e sulle malattie genetiche in generale. Vedo con piacere che c’è chi ha fatto partire un tam tam ben più ampio del mio, Fabio e Silvia. Mi associo volentieri a loro...
Il 21 luglio scorso è nato il mio primo bambino, Paolo, con un parto rapido e fantastico. Con lui abbiamo trascorso un’estate completamente incantati, chiedendoci che avremmo fatto con lui nelle varie fasi della sua vita: quando il primo passo o il primo dentino, se la sua prima parola sarebbe stata mamma o papà, che lavoro avrebbe fatto da grande... Ovviamente (?!) nella nostra fantasia di genitori Paolo sarebbe stato un bimbo prodigio e probabilmente da grande avrebbe fatto il presidente della Repubblica. La nostra preoccupazione più grande per lui era che diventasse un bimbo, poi un ragazzetto ed un uomo intelligente, simpatico, piacente...
Io e mio marito eravamo già in piena discussione: motorino sì o no, uscite serali, fino a che ora? Illusi! A settembre le nostre domande sul suo futuro sono diventate un po’ più di basso profilo....ci domandavamo, ma quando comincerà a tirare su la testolina da solo? Perché le gambine sono così moscette? Perché ha quel rantolino quando respira e ogni tanto diventa grigetto e sudato?

Qual è stata la risposta a queste domande?
Il pediatra, rivedendolo al ritorno dalle vacanze, ha capito subito che qualcosa non andava e gli ha fatto fare una visita neurologica con prelievo di sangue annesso.
I due giorni successivi, in attesa della sentenza, sono durati due mesi. Ci dicevamo che era tutto un errore, che Paolo stava benone; siamo perfino arrivati a vedergli muovere le gambe! Ma la sentenza purtroppo è arrivata, inappellabile: atrofia muscolare spinale di tipo I...
Paolo è morto per la prima volta il 14 settembre, per poi lasciarci per sempre il 4 novembre scorso. I giorni trascorsi con Paolo dopo la diagnosi sono stati di “preparazione”: abbiamo avvertito parenti e amici, lo abbiamo fatto battezzare, con l’aiuto di Chiara Mastella del Sapre di Milano (counselor sanitario sistemico, coordinatore SAPRE – Servizio Abilitazione Precoce dei Genitori), ci siamo procurati i presidi necessari per assisterlo a casa. Per nostra fortuna Paolo ha avuto bisogno di mangiare con il sondino nasogastrico solo per un paio di settimane e le sue crisi respiratorie erano brutte ma sporadiche. Perfino il giorno prima di andarsene, anche se lo aspiravamo in continuazione, era sereno. Paolo ora è il nostro angioletto, può muoversi e respirare come qui con noi non avrebbe mai potuto fare. Siamo contenti di non aver voluto per il nostro bambino alcun tipo di accanimento terapeutico e di averlo “accompagnato” cercando di farlo stare il meglio possibile fino alla fine. È stato un gran privilegio averlo conosciuto e un grande onore essere stati i suoi genitori, il suo sarà per sempre il più bel ricordo. Ma se avessimo potuto evitargli tutte le sofferenze, lo avremmo di certo fatto, anche se questo avesse significato non conoscerlo mai.

Se avessi saputo che era malato avresti abortito?
Sì perché avrei preferito che non nascesse mai, piuttosto che malato. Avrei abortito, ma soprattutto vorrei avere avuto la possibilità di scegliere ancor prima. Ecco perché è tanto importante poter effettuare la diagnosi di preimpianto. E vorrei che ci fossero più attenzione e più informazione verso le cosiddette malattie rare: in Italia c’è 1 portatore sano di SMA su 50 individui: sembra così poco? Un altro esempio: si stima che il 5% della popolazione italiana sia portatrice sana di fibrosi cistica.
Anche riguardo alla prevenzione credo si possa e si debba fare molto. Nel sito dell’Università di Udine si parla di un progetto di ricerca sulla SMA e il vicepresidente della Uildm (Unione Italiana per la Lotta alle Distrofie Muscolari) di Udine dice a proposito della SMA: “la prevenzione rimane il mezzo migliore per limitare la diffusione della malattia, non esistendo ancora una terapia efficace”. Questo vuol dire che persone ben più competenti in materia la pensano esattamente come me: vale la pena di cercare di abbattere i costi del test del portatore sano (nella fattispecie di SMA) in modo che, in termini di rapporto costi/benefici, abbia senso proporre uno screening su larga scala, perché chiunque possa sapere se è o meno portatore sano di questa orrenda malattia mortale. Perché chiunque possa consapevolmente scegliere come comportarsi se vuole avere figli.

Fare uno screening o effettuare una diagnosi prima dell’impianto eviterebbe di abortire...
Non voglio fare polemiche, ma questa è la realtà.
Psicologicamente ed emotivamente abortire per ragioni terapeutiche fa molto effetto. Devi scegliere tra il far nascere un bambino malato, spesso gravemente e destinato a morire come Paolo, oppure l’interrompere quella gravidanza tanto voluta: è una scelta impossibile! Con la diagnosi preimpianto è possibile concepire un figlio sano.
Perché mi è concesso abortire un embrione malato, mi è concesso quindi interrompere una gravidanza in queste condizioni e, invece, non mi è permesso di non avviarla?
Inoltre la diagnosi genetica di preimpianto è a mio carico, l’interruzione di gravidanza è a carico della spesa pubblica.
Se fosse consentita la diagnosi di preimpianto non ci sarebbero tanti aborti terapeutici (al di là delle polemiche suscitate dalle linee guida del 2008 soprattutto sulla questione della diagnosi di preimpianto, in Italia l’accesso alle tecniche in generale e in particolare alla diagnosi prima dell’impianto è limitato fortemente ed esclude senza valide ragioni molte persone, ndr).

Che cosa è successo dopo la morte di Paolo?
Sono rimasta incinta 2 volte e ho avuto 2 aborti: il primo aborto è stato spontaneo e l’embrione è stato espulso automaticamente (ho avuto le mestruazione dopo 2 mesi).
Il secondo aborto è stato drammatico – e non era nemmeno un aborto terapeutico perché sono andata a fare il raschiamento sapendo che non c’era niente di vivo in me (al Policlinico Gemelli, dove fanno solo i raschiamenti e non le interruzioni di gravidanza...). Immagino chi lo fa quando l’embrione, per quanto malato, è ancora vivo. La diagnosi prenatale la fai all’epoca in cui si può effettuare il bitest, che è una analisi preamniocentesi. Ti dà statisticamente il rischio di grossolane malformazioni. A quest’epoca il tuo piccolino lo vedi sullo schermo dell’ecografo già tutto bello formato, in miniatura... Bella cosa sapere di doverlo abortire perché è malato!!!

Come ti sei accorta che qualcosa non andava nella gravidanza?
Ho fatto l’ecografia alla ottava settimana; le misure del feto erano giuste, ma non c’era il battito. Alla nona o decima settimana ho fatto il raschiamento. Ti portano in sala parto; vai nella stessa sala operatoria in cui fanno i parti cesarei. Senti i vagiti dei bambini appena nati.
Dopo l’intervento ti mettono nella stanzetta per svegliarti dalla anestesia; sei vicino al letto di una donna con un bambino tra le braccia.
Volevano farmi stare una notte ricoverata, io ho firmato contro il parere medico (l’indicazione dopo il raschiamento è di passare la notte in ospedale).
Perché non si può fare la diagnosi di preimpianto? Perché l’unica alternativa è questa. Non avrei dubbi su cosa fare, ma interrompere terapeuticamente è molto doloroso. Sarebbe meglio non avviare la gravidanza, che interromperla con un figlio voluto ma malato.
Molte persone che hanno un bambino malato (perché hanno deciso di farlo nascere o perché hanno saputo della malattia dopo la nascita) criticano chi sceglie di abortire per ragioni non terapeutiche: “c’è chi vuole tanto in figlio e chi lo butta via”, dicono. Ma io ci tengo a dire che ogni persona dovrebbe poter scegliere. In ogni circostanza. Raccontare la storia drammatica di Paolo significa anche contribuire alla informazione: i bambini con la SMA muoiono neri, soffocati.
Sono fiera di essere stata sua madre, ma vederlo morire morire nero tra le mie braccia... Non avrei mai voluto che accadesse – anche se il prezzo altissimo sarebbe stato quello di non averlo conosciuto e amato.
Mio figlio aveva gli occhi azzurri ma non muoveva le gambe, aveva un naso perfetto, era bellissimo
che fortuna!, meglio un mostro cagone che un bimbo immobile. “Speriamo che non sia brutto – pensavo durante la gravidanza – che a scuola non lo prendano in giro, che non porti gli occhiali”. Non avrei mai immaginato di dover sperare che respirasse.


(Persona e Danno, 19 maggio 2008).

L’opposizione (a Berlusconi) viene dalla Spagna

Già, perché qui sono tutti impegnati a esprimere solidarietà, apprezzamento, ad offrire collaborazione, dialogo e a correre quando qualcuno ricorda il passato (e il presente) di questa gente. Addirittura ridono alle sue battute come si faceva con il bulletto della classe, sebbene non ci fosse nulla da ridere – è raro che i bulli abbiano la vena comica. In Spagna, invece, non ridono ossequiosi, ma rispondono. Che non abbiano il senso dell’umorismo? («Berlusconi? Gli pago io uno psichiatra», 18 maggio 2008). Bibiana Aído Almagro, nata nel 1977, afferma inoltre:

Y yo no soy niña de nadie. Soy una mujer madura.
Voglio espatriare. Peccato non si possa chiedere asilo politico...

domenica 18 maggio 2008

Quanto cibo sprecato!

One Country’s Table Scraps, Another Country’s Meal, May 18, 2008, New York Times.

Il Network dei Transumanisti Italiani

Il transumanesimo – il movimento culturale che propugna l’uso della scienza e della tecnologia per superare alcune delle limitazioni della condizione umana attuale – non gode di buona stampa: è stato addirittura definito «l’idea più pericolosa del mondo» da Francis Fukuyama; a un livello più basso, viene usato comunemente come termine derogatorio da integralisti e atei clericali di Avvenire e del Foglio. Eppure, nonostante alcuni aspetti discutibili (come la scelta forse un po’ infelice del nome, e alcune degenerazioni che si verificano ogni tanto qua e là), il transumanesimo ha una sua dignità intellettuale, ponendosi come diretta continuazione dell’illuminismo e del liberalismo; ma forse il problema, per molti, sta proprio qui...
Nasce adesso, per aiutare a diffondere ancora di più le idee transumaniste nel nostro paese, il Network dei Transumanisti Italiani, una rete non centralizzata di siti accomunati dall’interesse verso l’uso liberale delle tecnologie. Bioetica, pur non essendo un blog esplicitamente transumanista, non può che guardare con simpatia a questa iniziativa, di cui costituisce uno dei soci fondatori.

sabato 17 maggio 2008

venerdì 16 maggio 2008

Filomena Gallo sulle linee guida e la legge 40

Avevo deciso di non commentare le dichiarazioni sulle Linee Guida (per la noia e il fastidio che tali dichiarazioni mi provocano). Lo faccio tramite la dichiarazione di Filomena Gallo (avvocato e presidente di Amica Cicogna e vice segretario della Associazione Luca Coscioni).

Spiace dover leggere dichiarazioni, come quella di Giovanardi o della Roccella, sulla revisione delle recenti linee guida. Perché emerge una mancanza assoluta di preparazione su temi che determinano attualmente un dibattito viziato e superfluo, visto la preparazione di questi politici. Le line guida sono un decreto ministeriale che ha solo recepito il contenuto di sentenze di merito passate in giudicato, e che affermano solo il contenuto della legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita. La legge sulla fecondazione assistita prevede infatti l’indagine clinica diagnostica sull’embrione (articolo 14 comma 2) a seguito di richiesta della coppia (articolo 14 comma 5).

I due parlamentari hanno memoria breve, poiché hanno completamente dimenticato che questa legge è stata prodotta proprio dall’attuale maggioranza di Governo nel 2004. Inoltre non conoscono bene neppure il risultato del referendum sulla legge 40/04, poiché lo stesso non ha determinato la vittoria di nessuno, non hanno vinto né i no e neppure i sì, ma la gente ha deciso di non scegliere per via della mancanza d’informazione corretta che vi è stata.

La politica non può entrare nella sfera di diritti personali che determinano tutele, poiché solo i magistrati hanno questo compito.

Il presidente Berlusconi dovrebbe evitare che i rappresentanti del suo Governo esprimano pareri privi di senso, senza cognizione alcuna di procedure e contenuti in materia, che servono solo a far capire che su tali tematiche il cittadino italiano deve difendersi dallo Stato.

Forse Giovanardi e la Roccella vorranno modificare la legge 40 poiché non abbastanza restrittiva, ma per coerenza dovrebbero vietare anche l’ecografia in gravidanza, la villocentesi, l’amniocentesi e i controlli di routine previsti per le gestanti e il nascituro. E in questo panorama politico dove invece di migliorare le leggi l’unica volontà è di peggiorarle a danno della salute delle mamme e del nascituro, le coppie si rivolgeranno nuovamente a giudici - come unici paladini per la tutela dei diritti.
Rivedere le linee guida sulla legge 40/04 significa permettere a noi coppie d’impugnarle nuovamente dinanzi al TAR Lazio.

giovedì 15 maggio 2008

Finalmente giustizia per Regina McKnight

La storia di Regina McKnight è una gran brutta storia cui finalmente da pochi giorni si è posto rimedio. Per quanto sia possibile rimediare ad un simile scempio.

Regina è una giovane donna senza casa, dipendente dalla cocaina e mentalmente ritardata; vive nel South Carolina ed è nera (il movimento per i diritti dell’embrione (unborn child) sta assumendo in questo Stato l’aspetto di una persecuzione condotta soprattutto verso donne povere e, nella maggior parte dei casi, nere. Su 167 procedimenti contro donne incinte fino al 1992, 87 sono nel South Carolina). Il 15 maggio 1989 partorisce all’ottavo mese e mezzo di gravidanza: il bambino nasce morto. Alla fine del maggio 2001 è dichiarata colpevole di omicidio e condannata a 12 anni di prigione.
Regina fumava crack durante la gravidanza: l’autopsia evidenzia alcune tracce di tale sostanza nel corpo del feto e il medico che esegue l’autopsia stabilisce che la morte del piccolo si possa collocare uno o due giorni prima del parto. I medici che intervengono al processo non concordano nel ritenere la tossicomania della madre la causa della morte del feto: determinare la causa del decesso nel caso di un parto di un bambino morto è spesso difficile, e a volte impossibile. In altre parole, non è possibile stabilire con certezza che la condotta di Regina abbia causato la morte del feto.
Nonostante questo, una giuria dichiara Regina colpevole di omicidio dopo aver deliberato per soli quindici minuti. Charles Condon, candidato repubblicano al governo, definisce questa condanna come una importante testimonianza della volontà del South Carolina di proteggere la vita innocente tanto delle persone born quanto delle persone unborn.
La legislazione del South Carolina considera persona il feto vitale: di conseguenza ogni comportamento potenzialmente dannoso per il feto è perseguibile come criminal child abuse. Nei procedimenti contro donne incinte viene spesso richiamato lo Statuto a difesi dei minori e addirittura invocato il reato di spaccio di sostanza stupefacenti. L’uso di sostanze stupefacenti è infatti il comportamento maggiormente sanzionato; seguono il fumo, gli alcolici, le droghe legali o la violazione delle prescrizioni mediche. È interessante sapere che il South Carolina, oltre ad essere la roccaforte della tutela degli embrioni, è anche uno degli Stati che stanzia meno fondi per i programmi di disintossicazione e la prevenzione delle tossicodipendenze; spenderà però circa 300.000 dollari per la lunga detenzione di Regina McKnight.
Nel maggio del 2003 la difesa di Regina McKnight chiede che la Corte Suprema degli Stati Uniti compia una revisione della decisione presa dalla Corte Suprema del South Carolina. La petizione (sostenuta da una trentina di organizzazioni mediche, tra cui l’American Nurses Association, il South Carolina Medical Association e l’American Public Health Association) afferma che la condanna della giovane per omicidio viola la Costituzione: l’Ottavo Emendamento (proibizione di crudeli e insolite pene) e il diritto di procreare. La petizione, inoltre, sottolinea che la Corte del South Carolina ha trasformato un parere medico (la cui verosimiglianza non è stata confermata) in una prova schiacciante di colpevolezza: in questo modo ha trattato una donna come una spietata assassina (“depraved heart” murderer) e ha infamato la tradizione legale americana. Nel giugno dello stesso anno la Drug Policy Alliance (vedi http://www.lindesmith.org) a sostegno della petizione afferma quanto segue: (1) non c’è alcuna evidenza scientifica e clinica per affermare che l’uso di droga da parte di Regina abbia causato la morte del feto; (2) il caso di Regina è pericoloso perché scoraggia tutte le donne incinte che fanno uso di droga a richiedere assistenza pre e postnatale per paura di essere incriminate; (3) trattare una donna che ha partorito un bambino morto come una criminale invalida i tentativi di aiutarla a superare una esperienza tanto traumatica. Il 6 ottobre del 2003 la Corte Suprema degli Stati Uniti rifiuta di ascoltare l’appello a favore di Regina McKnight.
Regina è il primo caso in cui una donna venga accusata di omicidio in tali circostanze: negli anni precedenti molte altre donne sono state coinvolte in processi a causa di un comportamento ritenuto dannoso per il feto.
La violazione dei diritti delle donne è una inevitabile conseguenza dell’equiparazione giuridica tra l’embrione e le persone; ma vi è un’altra conseguenza piuttosto allarmante. Le donne incinte il cui comportamento è giudicato, da loro stesse, trascurato verso l’unborn child e quindi condannabile, le donne che fanno uso di sostanze stupefacenti, sempre più spesso si guardano bene dall’andare in ospedale per sottoporsi a controlli durante la gravidanza, per evitare la prigione. Quando lo fanno, è per partorire, oppure è a causa di qualche complicazione a cui può essere tardi rimediare.
Ciò che è accaduto a Regina McKnight suscita una domanda: com’è possibile considerare una conseguenza non desiderata e forse non determinata dall’uso di crack come omicidio e, allo stesso tempo, affermare che è legale abortire? Causare quello stesso effetto (la morte) deliberatamente non può essere legittimo se si dichiara che è un crimine farlo involontariamente. La maggiore gravità di un omicidio intenzionale rispetto a un omicidio colposo sembra paradossalmente invertita in tale caso.

E finalmente
Today, we were thrilled to learn that after 8 long years, the South Carolina Supreme Court has finally reversed the 20-Year Homicide Conviction of Regina McKnight. The unanimous decision recognizes that research linking cocaine to stillbirths is based on "outdated" and inaccurate medical information. NAPW has been working on behalf of Ms. McKnight for nearly 10 years.

Specifically the South Carolina Supreme Court ruled that Regina McKnight did not have a fair trial when she was convicted in 2001 for homicide by child abuse. Through this conviction she became the first woman in South Carolina to be convicted of homicide by child abuse as a result of suffering an unintentional stillbirth.

McKnight was arrested in 1999, several months after she experienced a stillbirth at Conway Hospital. McKnight’s conviction was based on the jury’s acceptance of the scientifically unsupported claim that her cocaine use caused the stillbirth. McKnight had no prior arrest history and even prosecutors agreed that she had no intention of harming the fetus or losing the pregnancy. Nevertheless, upon conviction she was given a twenty-year sentence, suspended to twelve years in prison with no chance for parole. She was projected to be released in 2010.

The medical community has strongly opposed McKnight’s prosecution and conviction. From the beginning, leading South Carolina and national medical, public health, and child welfare organizations and experts have opposed the prosecution and conviction. These organizations — represented by us — the National Advocates for Pregnant Women and the Drug Policy Alliance, with South Carolina counsel Susan Dunn included the South Carolina Medical Association, the South Carolina Nurses Association, the South Carolina Association of Alcoholism and Drug Abuse Counselors, and the South Carolina Coalition for Healthy Families argued in an amicus (friend of the court) brief argued that women do not lose their rights to a fair trial upon becoming pregnant and challenged the state’s evidence that cocaine use or anything else that McKnight did or did not do caused the stillbirth.
(Continua).

mercoledì 14 maggio 2008

Chi l’ha scritto?

È un vecchio discorso che non ci stancheremo di ripetere, perché a difendere il diritto all’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe, noi donne, che l’aborto in sé per sé siamo le ultime a volerlo; ma è un primo passo verso la libera disponibilità e l’autogestione del nostro corpo, senza la quale non c’è libertà né felicità possibile. Invece proprio su questo e in particolare sulle nostre funzioni riproduttive, sono state messe ipoteche: il patriarcato ci ha tolto ogni giurisdizione sul nostro corpo, sequestrandoci nella famiglia, applicandoci il bollo del cognome maritale e paterno, imponendo alle donne una sessualità solo riproduttiva, vietandoci l’aborto, impedendoci qualunque possibilità di controllare la nostra fecondabilità.
La risposta – sorprendente, ma non troppo – qui.

Dio E.T.

Come esiste una molteplicità di creature sulla terra — ha detto ancora il padre Funes — così potrebbero esserci altri esseri, anche intelligenti, creati da Dio. Questo non contrasta con la nostra fede, perché non possiamo porre limiti alla libertà creatrice di Dio.
(A me Funes fa venire alla memoria altro...).

Marco Travaglio su Renato Schifani

Essere costretti ad invocare i diritti fondamentali garantiti dalla carta costituzionale ha spesso il sapore amaro di una estrema e noiosa difesa.
Vale la pena di correre il rischio richiamando la libertà di opinione e di espressione. Libertà che sancisce anche il diritto di correre il rischio di abusarne. E di subire le eventuali conseguenze in caso di reato (diffamazione o calunnia che sia) – unico limite giustificato.
Quando le parole dei cittadini sono limitate da ragioni diverse si impone la censura. Mascherata con i nomi più vari: da buon gusto a legittima punizione della provocazione, da opportunità politica a giusta condanna degli estremismi.
Quando si riportano fatti veri non può esistere calunnia, ma censura sì. E servile autocensura anche, preventiva o volta a negare complicità o consenso.
L’unico modo per “tappare la bocca” di qualcuno che pronuncia parole ruvide è dimostrare la loro infondatezza. Se Marco Travaglio ha dichiarato il falso riguardo a Renato Schifani pagherà nelle sedi stabilite. Le confutazione delle sue parole giustificherebbe la querela. Ma in caso contrario, e fino ad allora, ha detto la verità. E scandalizzarsi è sintomo di un ipocrita perbenismo, nella ipotesi più rosea.
Sono molti quelli che sono accorsi a chiedere scusa e a prendere le distanze, forse più inclini ad ascoltare pietose bugie o perifrasi barocche. Ben strana abitudine chiedere scusa per avere ascoltato la verità!
Con una compattezza e una partecipazione da stadio. Metafora, ormai, ben più invadente di una invocazione trasformata nel nome di un partito politico in quel lontano 1993.

(Confutate Travaglio o querele e cause non hanno senso, DNews, 13 maggio 2008)

lunedì 12 maggio 2008

Per la peer review

La ricerca scientifica italiana soffre indubbiamente per la carenza di fondi; ma questo non è purtroppo l’unico dei suoi problemi. Mancano anche orientamenti strategici chiari nella direzione della ricerca, e criteri trasparenti ed efficaci nell’allocazione dei finanziamenti. Di tutto questo parlano Paolo Bianco ed Elena Cattaneo sul Sole 24 OreRicerca, niente fondi senza bando», 9 maggio 2008, p. 14), da cui cito questo passo sul modo corretto di intendere la peer review:

in Italia sono sconosciute le procedure di valutazione anonima, terza, competente e indipendente in base alle quali la scienza va finanziata. Troppo spesso confusa con il semplice ricorso a revisori anonimi, e troppo spesso confusa con lo strumento con il quale difendere il merito (come se fosse interesse dello Stato tutelare i “bravi”, e non tutelare se stesso attraverso la promozione della migliore scienza possibile), la peer review (il sistema di valutazione autonoma, competente e indipendente, della scienza da parte della scienza) è insieme un principio di autonomia della scienza che ne assicura il successo, una garanzia di trasparenza per la pubblica amministrazione, e un sistema di procedure e norme definite nel dettaglio, che si incarnano in organismi e strutture per la loro corretta e vigilata applicazione. Senza le quali, nessuna valutazione anonima di progetti e studi si salva dal rischio di ridursi a una nostrana “anonima valutazioni”.
In calce all’articolo Il Sole segnala un appuntamento importante:
Sarà rinnovato il 19 maggio a Bologna l’appello da parte della comunità scientifica affinché la politica si impegni a favore della ricerca. Al convegno sul tema del peer-review interverrà Mario Capecchi, Nobel per la Medicina 2007. Partecipano Pier Ugo Calzolari (rettore dell’Università di Bologna), Giovanni Romeo (professore di Genetica medica all’Università di Bologna e presidente di Progen), Ignazio Marino (senatore e chirurgo), Fernando Aiuti (professore di Immunologia clinica all’Università La Sapienza), Vittorio Bo (Festival della Scienza di Genova), Giorgio Einaudi (Issnaf), Andrea Ichino (professore di Scienze economiche all’Università di Bologna), Lucia Monaco (Fondazione Telethon), L. Luca Cavalli Sforza (professore emerito a Stanford). L’appello, lanciato al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (e sostenuto dal Sole 24 Ore del 7 marzo scorso), è stato firmato da più di 1.500 ricercatori (www.liberiamolaricerca.it).
Aggiornamento: della richiesta della parte migliore del mondo scientifico italiano di applicare la peer review ai finanziamenti dà conto adesso anche la prestigiosa rivista Science (Laura Margottini, «A Plea for ‘Transparent’ Funding», 320, 16 maggio 2008, p. 861).

Una dichiarazione originale

La legalizzazione della interruzione volontaria di gravidanza

non solo non ha risolto i problemi che affliggono molte donne e non pochi nuclei familiari, ma ha aperto una ulteriore ferita nelle nostre società, già purtroppo gravate da profonde sofferenze.
(12 maggio 2008).
In corso celebrazioni da parte del Movimento per la Vita.

sabato 10 maggio 2008

La stupidità della dignità

Per chi pensa che la tradizione reazionaria di matrice religiosa sia monopolizzata negli Stati Uniti dal fondamentalismo protestante della Bible Belt, giungerà inevitabilmente come una sorpresa la notizia della progressiva diffusione dell’integralismo cattolico, specialmente nelle fucine ideologiche della destra conservatrice. Gli stessi intellettuali teocon (ben distinti dai neocon – nonostante la confusione che in Italia spesso si fa fra le due cose – come già notava a suo tempo il creatore del primo termine, Jacob Heilbrunn, nel suo classico «Neocon v. Theocon», The New Republic, 30 dicembre 1996) costituiscono in buona sostanza un movimento cattolico, che ha nella rivista First Things, diretta da padre Richard John Neuhaus, il suo focolaio principale di diffusione.
Naturalmente le questioni bioetiche sono state da sempre al centro dell’attenzione teocon; grazie all’aiuto di Leon Kass (che cattolico non è), gli integralisti cattolici hanno assunto il controllo del President’s Council on Bioethics (l’equivalente del nostro Comitato Nazionale per la Bioetica), da cui hanno imposto la loro agenda oscurantista durante la presidenza Bush.
Uno dei concetti fondamentali della riflessione integralista in materia di bioetica è quello di «dignità». In uno straordinario saggio per il prossimo numero di New Republic, «The Stupidity of Dignity» (28 maggio 2008), Steven Pinker ci spiega i motivi di questa scelta:

Il concetto di dignità è il terreno naturale su cui costruire una bioetica proibizionista. Ogni pretesa infrazione della dignità fornisce ad estranei il pretesto per condannare azioni scelte volontariamente e coscientemente dalle persone coinvolte. Esso offre una giustificazione moralistica per espandere il controllo del governo sulla scienza, la medicina e la vita privata. L’esclusiva della Chiesa sugli eventi più significativi della nostra vita – la nascita, la morte, la riproduzione – rischia di essere minata, dopo che la biomedicina ne ha ridefinito le regole. Non desta sorpresa, allora, che la «dignità» sia un tema ricorrente nella dottrina cattolica: la parola appare più di 100 volte nel Catechismo del 1997, ed è un leimotif dei pronunciamenti più recenti del Vaticano sulle scienze biomediche.
Pinker mostra persuasivamente come i casi in cui la «dignità» sembra giocare un ruolo positivo siano sempre reinterpretabili in termini di difesa dell’autonomia personale – il vero principio alla base dello Stato liberale. Per il resto ci consegna questa notevole riflessione (che non ho purtroppo il tempo adesso di tradurre):
Could there be cases in which a voluntary relinquishing of dignity leads to callousness in onlookers and harm to third parties – what economists call negative externalities? In theory, yes. Perhaps if people allowed their corpses to be publicly desecrated, it would encourage violence against the bodies of the living. Perhaps the sport of dwarf-tossing encourages people to mistreat all dwarves. Perhaps violent pornography encourages violence against women. But, for such hypotheses to justify restrictive laws, they need empirical support. In one’s imagination, anything can lead to anything else: Allowing people to skip church can lead to indolence; letting women drive can lead to sexual licentiousness. In a free society, one cannot empower the government to outlaw any behavior that offends someone just because the offendee can pull a hypothetical future injury out of the air. No doubt Mao, Savonarola, and Cotton Mather could provide plenty of reasons why letting people do what they wanted would lead to the breakdown of society.

giovedì 8 maggio 2008

8 per mille democratico

L’appello promosso da MicroMega:

Di fronte all’offensiva clericale volta a limitare irrinunciabili libertà e diritti civili degli individui (che andrebbero invece decisamente ampliati), e alla subalternità e passività dello Stato nelle sue istituzioni parlamentari e governative, benché non credenti in alcuna religione, in occasione della dichiarazione dei redditi invitiamo tutti i cittadini democratici a devolvere l’otto per mille alla Chiesa Evangelica Valdese che le libertà e i diritti civili degli individui ha sempre rispettato e anzi promosso, e che si è impegnata ad utilizzare i proventi dell’otto per mille esclusivamente in opere di beneficenza e non a scopo di culto o di sostegno per i ministri e le opere della propria confessione religiosa.
Aggiornamento: i lettori di Bioetica apprezzeranno sicuramente il fatto che la Chiesa Evangelica Valdese destina parte dei fondi ottenuti attraverso l’otto per mille alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Nel 2007 un contributo di 100.000 Euro (e di 50.000 nel 2008) è stato assegnato al Laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative dell’Università di Milano (diretto da Elena Cattaneo), per una ricerca sulle staminali embrionali e la malattia di Huntington.

mercoledì 7 maggio 2008

Venga a vedere che cosa è il gay pride

La lettera che Cristiana Alicata ha scritto a Gianni Alemanno (ma che potrebbe essere inviata a tanti, tanti cittadini e politici) va letta tutta e riletta a voce alta.
Ho scelto, per il titolo, un invito che dovrebbe essere la condizione necessaria per parlare o giudicare (o come direbbe mia nonna: prima pensa, poi parla).
Grazie di cuore a Cristiana.

A Lucetta non piace l’Arcobaleno

Invelenita forse da una pessima giornata, Lucetta Scaraffia si avventa sulla Famiglie Arcobaleno (Il Mulino bianco delle famiglie arcobaleno, Il Riformista di oggi). Che, secondo Scaraffia, sarebbero state dipinte da Il Corriere della Sera come improbabili famigliole felici e perfette. Scrive: “Nelle due pagine che il Corriere della Sera ha dedicato alla cronaca di questo avvenimento non c’è una sola nota stonata: tutti sono felici, i bambini belli, i genitori perfetti, mai nervosi o stufi di accudire la prole, mai innervositi verso il partner”.
Verrebbe da chiedere perché Lucetta se la prenda con le famiglie descritte, dal momento che forse potrebbe essere stato chi le ha raccontate a peccare di melassa (come la stessa definisce poco avanti il clima che emerge). Ma no, Il Corriere non è mica omosessuale; e quindi ad essere sospettate sono queste famiglie, che hanno l’unica colpa di volere il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali (e perché non aggiungere: se per natura non possono riprodursi cosa diavolo pretendono?).

Lucetta si distingue per le sue affermazioni campate in aria anche nelle righe seguenti. Afferma candidamente: “Il fatto che i bambini nati da un rapporto eterosessuale siano gli unici a conoscere entrambi i genitori biologici non viene considerato rilevante”.
Sarebbe stato educato provare a spiegare. A spiegare, intendo, questa ossessione per i legami biologici (la situazione descritta non cambierebbe se i genitori di cui si parla fossero “soltanto” sociali; in altre parole non basta lo spermatozoo a rendere padre un uomo e cominciare a parlare di più di legami affettivi, invece che genetici, sarebbe sensato e augurabile).
Ma veniamo alla melassa:

Ed è proprio tutta questa melassa, questo paesaggio da Mulino Bianco a far capire come sia tutto terribilmente difficile, come in realtà i problemi siano così gravi da non potere neppure essere nominati per poi, magari, venire affrontati e risolti.
Perché non ha provato Lucetta ad elencare i problemi così gravi da essere innominabili? Forse perché in vita sua non ha mai incontrato queste famiglie? Non ci ha mai parlato (ma perché scomodarsi, poi?). Forse perché non si è presa la briga di leggersi nemmeno un articolo (Corriere a parte, che però è cronaca, non certo un articolo da cui imparare chissà che).
Che importa che l’80% delle famiglie gay sia costituito da donne, le uniche in grado di procreare un figlio facendo ricorso a una donazione di sperma? Che importa che, per gli uomini, sia necessario l’affitto di un utero, cioè di una donna che si presta alla gravidanza per denaro, fatto certo non così tranquillo e positivo?
Siamo costretti a ripeterci (vedi domande suddette). Di che parla Lucetta? Di automatismi, di luoghi comuni, di reazioni pavloviane e ormai di una noia mortale che ci attanaglia troppo spesso a sentire queste banalità camuffate da preoccupazioni antropologiche e salvifiche. Interessante la costruzione della frase: “si presta [...] per denaro”. Quando si dice la stupefacente lingua italiana e le sue rivelazioni (magari involontarie)...
Come al solito, il confronto viene fatto con l’estero, con i paesi dove tutto si può fare, e un’Italia arretrata e ferma sulla difesa della famiglia tradizionale. Dimenticando che anche lì i problemi dell’anonimato del donatore di sperma si sono posti drammaticamente, che ci sono psicologi allarmati per gli esiti di questi esperimenti sulla costruzione dell’identità e libri che raccontano l’esperienza dei primi bambini vissuti in famiglie omosessuali che testimoniano realtà molto meno rosee. Non sarebbe molto più sensato individuare i problemi, e poi cercare di capire se sono risolvibili? Se no, se rimaniamo sempre dentro al cerchio magico dell’utopia, il risveglio può essere veramente molto brusco.
Chissà che idea di “estero” ha la nostra Lucetta: un luogo anarchico, privo di regole e razionalità (magari anche privo di discriminazioni che sono ben radicate nel nostro assolato Paese). Sentire per l’ennesima volta il richiamo alla famiglia tradizionale è davvero irritante. Anche qui la conoscenza di Lucetta sembra difettare: basterebbe un bignami di diritto di famiglia per essere, sì, meno stucchevoli di così. Aspettiamo con ansia i riferimenti bibliografici sulla realtà meno rosea.
Ah, per concludere: chi considera le famiglie omosessuali come famiglie (come una delle possibili famiglie) non vuole affermare, stupidamente, che siano più felici a priori. Che siano meglio di quelle eterosessuali. Nessun assetto formale determina automaticamente il contenuto. Ciò che si vuole suggerire è che sono luoghi in cui si può crescere bene proprio come nelle famiglie eterosessuali; niente Mulino Bianco, stiamo parlando di persone, forse Lucetta lo ha dimenticato. Ma inseguire la macchietta “orientamento sessuale X” = “carattere X” (e quindi capacità genitoriale presente o assente in base al sesso della persona che ami) è una tentazione troppo forte.
Il problema più serio (oltre alla stupida superficialità di molte persone ignoranti) è quello della mancanza di alcuni diritti importanti – diritti che sarebbero in primo luogo a tutela del minore (che viene sempre nominato, ma raramente considerato sul serio).
E poi questo modo di ragionare (il rischio del donatore anonimo, per esempio) costringerebbe a condannare anche il matrimonio con la m maiuscola in base al fatto che ne falliscono parecchi. E la famiglia con la f maiuscola visti i dati su violenze e così via. Uno sforzo per proporre qualche argomento sensato sarebbe davvero ben accetto.

Un vero mostro tra vigne e uliveti dell’Abruzzo

Il braccio di ferro è tra i cittadini informati (ancora pochi) e i politici dell’Abruzzo, apparentemente più interessati al petrolchimico che al patrimonio vinicolo e agricolo della terra che amministrano. Più inclini a salvaguardare gli interessi dell’Eni che la salute degli abitanti.
Il Comitato Natura Verde si è costituito per denunciare il progetto, non troppo pubblicizzato, di costruire il Centro Oli di Ortona. Che non è un centro di promozione dell’olio d’oliva, altro prodotto di punta dell’Abruzzo, ma è una vera e propria raffineria destinata alla idrodesolfurizzazione del petrolio. Operazione altamente inquinante, con un impatto ambientale che va ben oltre i confini dell’Abruzzo. Secondo il Mario Negri Sud il Centro Oli diffonderebbe quasi una tonnellata e mezzo di inquinanti, tra cui il micidiale idrogeno solforato (sostanza 25.000 volte più tossica dell’anidride carbonica).
Mentre in tutto il mondo si cercano soluzioni energetiche alternative al petrolio, per far fronte al suo inevitabile esaurimento e per arginare l’inquinamento ambientale e i rischi per la salute, nel cuore di una regione che produce ottimi vini e che basa gran parte della propria economia sull’agricoltura si progetta un vero e proprio mostro ambientale.
Il 30 aprile si è riunito il Consiglio comunale di Ortona. All’ordine del giorno c’era la richiesta di abrogazione della legge approvata il 4 marzo dal Consiglio Regionale e che aveva sospeso l’attuazione del progetto dell’Eni fino a dicembre 2008. La resistenza dei cittadini ne ha impedito la discussione. Una battaglia vinta, ma la guerra è appena cominciata.

(DNews, 7 maggio 2008; qui il trailer de Il ritorno di Attila di Antonello Tiracchia)

martedì 6 maggio 2008

Avanti col «ma anche»

«Più morbida nei toni, ma non nella sostanza», ci assicura Repubblica, la polemica di Walter Veltroni sulle parole di Gianfranco Fini riguardo ai fatti di Verona e Torino:

«Io sono per non stabilire mai priorità su questi temi», dice il leader del Pd in polemica con Fini. per Veltroni «nel primo caso c’è la vita di un ragazzo che è stata spezzata ed è un episodio molto grave e sottovalutarlo sarebbe un errore molto serio; il secondo episodio è altrettanto grave e stabilire delle priorità è assolutamente sbagliato».
Insomma, mentre per Fini è più grave bruciare una bandiera che uccidere un innocente a calci e pugni (a quanto pare il consiglio di Talleyrand, Surtout pas trop de zèle, è rimasto per certuni lettera morta), per Veltroni invece non c’è differenza: l’omicidio volontario vale l’oltraggio alla bandiera.

Bravo, bravissimo. Avanti così.

Amore Civile

Amore civile significa mettere al centro non la forma, ma la qualità delle relazioni affettive. Amore civile è l’antidoto all’amore fatale come passione travolgente assoluta incapace di riconoscere l’autonomia dell’altro. Amore civile è convivenza basata sui criteri della democrazia, del rispetto e del dialogo. Amore civile è anche accoglienza delle diversità, riconoscere che oggi la famiglia è composta da tante diverse normalità e che in questo è rintracciabile la sua vitalità e ricchezza. Significa rivendicare che amore non è sinonimo di riproduzione, e che la civiltà dell’amore richiede sforzo, consapevolezza e anche aiuto, non il baratto di tutele in cambio di imposizioni di una morale di stato.

L’Italia cattolica e del Family day è il paese caratterizzato da record europei per assenza di asili nido, iniqua distribuzione del lavoro domestico tra uomo e donna, bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, numero di figli per donna, tempi e costi per l’adozione. E’ anche caratterizzata per un record di proibizioni.

Il 10, 11 e 12 maggio 2008 “Amore civile” si propone di tornare a unire studiosi della famiglia con i diretti interessati a una modifica della legislazione vigente.
Sala delle conferenze. Piazza Monte Citorio n. 123/a.
Qui il programma del convegno.

venerdì 2 maggio 2008

Stupido è meglio

Evita di pensare e campa cent’anni: uno studio svizzero dimostra che i moscerini della frutta più scemi vivono più a lungo di quelli intelligenti. Tadeusz Kawecki, un biologo dell’evoluzione dell’Università di Losanna, in Svizzera, e colleghi hanno insegnato ad alcuni moscerini ad associare un profumo con un’esperienza spiacevole – una scossa violenta alla loro gabbia. Gli scienziati hanno quindi selezionato gli esemplari con i punteggi più alti nel compito e li hanno fatti riprodurre, creando una linea genealogica che era più brava nel compito. Tre anni fa i ricercatori hanno dimostrato che questi animali più intelligenti morivano prima se deprivati di acqua e cibo.
La notizia (SE news del 28 aprile), sebbene difficilmente spostabile sulla specie umane (il bilancio fra apprendimento e longevità è infatti valido per i moscerini e non necessariamante per i bipedi implumi), lascia pensare. O no?

giovedì 1 maggio 2008

Ma perché non paga?

A qualche giorno di distanza dalle elezioni comunali romane conviene forse tornare sul tema affrontato assai sbrigativamente in «Il clericalismo non paga»: perché, esattamente, non paga? In che modo un candidato che ha fatto dell’ossequio alla Chiesa la caratteristica più visibile della propria persona politica (al punto da lasciar passare sotto silenzio persino alcune cose buone fatte come Ministro dei Beni Culturali nell’ultimo governo) ottiene 55.000 voti in meno del candidato – meno incline alle frequentazioni vaticane – a presidente della Provincia dello stesso partito?

Il lamento l’abbiamo sentito spesso, anzi spesso è stato anche il nostro lamento: i diritti civili interessano solo a una ristrettissima minoranza dell’elettorato; l’Italia non è la Spagna, gli italiani sono naturaliter clericali, e parlare di certe cose qui non paga. Manca però in questi discorsi ogni tentativo di quantificare la frazione interessata a questi argomenti – forse è talmente infima da sfuggire ai rilievi statistici? L’uno per mille? L’uno per diecimila? Ma fortunatamente abbiamo un modo per determinarla oggettivamente.
Il 12 e 13 giugno 2005 si sono tenuti i referendum per l’abrogazione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Una grave sconfitta per i liberali: solo una minoranza si è recata alle urne, e ancora di meno hanno votato Sì. L’impresa, del resto, era ardua: si trattava di esprimersi su una questione tecnica, che nessuno aveva seriamente tentato di spiegare in modo comprensibile alla gente, sfidando gli inviti pressanti a non votare (che rendevano oltretutto il voto non più segreto). Chi ha votato Sì, insomma, ha mostrato indubbiamente un interesse sentito per la difesa dei diritti civili (sono lontani i tempi in cui si votava in un certo modo solo «perché così ha detto il Partito»); contando queste persone avremo in prima approssimazione la cifra che cercavamo. Ai primi tre quesiti referendari (il quarto, sulla fecondazione eterologa, era più ‘eticamente difficile’ e possiamo trascurarlo) ha votato Sì in media il 22,5% degli aventi diritto. Una minoranza, certo: ma non esattamente una frazione infinitesima. Attenzione, poi: questo è il 22,5% dell’elettorato teorico. Ma in Italia esiste una frazione di persone che non si reca mai alle urne; l’affluenza maggiore degli ultimi dieci anni si è avuta per le Politiche del 2006 ed è stata pari all’83,6% (senza considerare i votanti all’estero). Teniamoci larghi, e non contiamo chi vota sempre scheda nulla o bianca: diciamo che l’elettorato attivo è dell’85%. Rapportato a questa percentuale (prudente), quel 22,5% di elettori – che per definizione fanno parte degli elettori generalmente propensi a votare – diventa il 26,5%: più di un elettore su quattro.
Si dirà: ma allora perché partiti che hanno fatto della difesa della laicità un punto qualificante del proprio programma, come per esempio il Partito Socialista, hanno conosciuto una débacle spettacolare sia alle elezioni politiche che a quelle comunali? La risposta è semplice: essere sensibili ai diritti civili non significa essere sensibili soltanto a quelli, né significa porli necessariamente al primo posto nella scala delle proprie priorità. Oltretutto, un partito che ospita al proprio interno Gianni De Michelis, Ugo Intini e Bobo Craxi può incontrare alcune difficoltà a farsi apprezzare dall’elettorato progressista; e diciamo che alzate d’ingegno come l’offerta di una candidatura a Mastella fatta da Enrico Boselli o la candidatura dell’ex pornostar Milly D’Abbraccio a consigliere del Comune di Roma non hanno propriamente aiutato. La polarizzazione politica e la mancanza di attenzione mediatica hanno fatto il resto.

Esiste, dunque, un quarto abbondante di elettori sensibili ai diritti civili e alla difesa della laicità; e si può cominciare a sospettare che offendere questi elettori presentandosi costantemente come amico di preti, cardinali, papi e numerarie dell’Opus Dei, mentre oltretutto dura ancora la memoria dei giorni in cui le proprie simpatie erano esattamente opposte, senza offrire su tutto il resto dei problemi all’ordine del giorno niente di significativo (a parte gaffe sesquipedali come quella del braccialetto elettronico contro gli stupri), non costituisca il massimo dell’astuzia.
La risposta convenzionale a questo sospetto è nota: quel quarto di elettori appartiene in massima parte, anche se non totalmente, alla sinistra; ben difficilmente, dunque, darebbe il proprio voto a un candidato ex fascista; oltretutto, chi può pensare anche solo per un attimo che Gianni Alemanno sia meno clericale di Francesco Rutelli? E in compenso l’ossequio verso le gerarchie cattoliche consentirà prima o poi il sospirato sfondamento al centro. Lo sanno tutti che nelle democrazie occidentali di oggi le elezioni si vincono al centro! No, se qualcosa è andato storto sarà sicuramente per un complotto di D’Alema, che ha convinto 55.000 persone a votare per Zingaretti e non per Rutelli...
Alemanno sarà probabilmente un sindaco peggiore di quanto lo sarebbe stato Rutelli da quasi ogni punto di vista, è vero; ma questo non significa che la cosa logica da fare fosse allora votare turandosi il naso (e chiudendo gli occhi, e tappandosi le orecchie) per Rutelli. Un voto dato turandosi il naso non si distingue in nulla da un voto dato con sincera convinzione; avesse vinto, Rutelli avrebbe preso il risultato come una conferma che la strada seguita era quella buona. Ne sarebbero seguiti altri cinque anni di genuflessioni davanti al papa, e poi altri cinque anni di Rutelli o di un altro Rutelli. Il messia laico non sarebbe arrivato a salvarci, mai. La cosa razionale, per chi non sopporta i Rutelli di questo mondo, è di dare subito un segnale netto, anche al costo di cinque anni di Alemanno, sperando che qualcuno ne colga il significato. Oltretutto sono solo elezioni comunali, in cui non si decide il destino del paese: Alemanno non può sospendere la democrazia e manganellare le opposizioni (e ha tutto l’interesse a tenere buoni per i prossimi anni i camerati a cui il successo avesse dato troppo alla testa).
Quanto allo sfondamento al centro, beh... Con le sue prese di posizione degli ultimi anni Rutelli ha strizzato l’occhio soprattutto al cattolicesimo integralista: quella parte di cattolici che pretende di imporre leggi ispirate dal magistero ecclesiastico all’intera società. Ma questa non è una posizione meramente intellettuale, una preferenza astratta che si possa sposare con qualsiasi posizione politica; si tratta invece dell’ideologia di un preciso gruppo sociale, dagli interessi estremamente ben definiti – e opposti drasticamente a tutto quello che anche lontanamente ricordi la sinistra (nonché l’autentico spirito liberale). Un gruppo rancoroso, sulla difensiva, paranoico, che odia la modernità, attaccato ai propri privilegi, e che scambia per cristianesimo il proprio ethos piccolo-borghese e familista. Il Partito Democratico può – almeno in teoria – raccogliere voti ovunque: tra gli elettori di AN, della Lega, in parte persino di Forza Italia; ma per gli integralisti cattolici rimarrà per l’eternità il partito dei «comunisti».
Il tragico errore della classe dirigente del PD (tutta intera: chi ha capito la verità se n’è già andato) è di aver scambiato la mappa semplificata, unidimensionale, del continuum politico destra-sinistra, col suo centro cattolico confinante con le due ali che strizza l’occhi ad entrambe, per il territorio sociale multidimensionale, in cui il «centro» integralista non confina per nulla con la sinistra. Frequentare solo i palazzi non aiuta a interpretare la realtà.

Inimicarsi i propri sostenitori cercando il sostegno dei propri avversari irriducibili è una ricetta buona solo per il fallimento. Una ricetta, beninteso, che non è stato il solo Rutelli ad applicare: si pensi al sindaco uscente di Roma, che prima ha promesso tra le fanfare un aumento delle licenze dei tassisti, e che poi, di fronte alla protesta violenta (ed illegale) di questi, invece di chiedere l’intervento dei reparti anti-sommossa con lacrimogeni e pallottole di gomma, ha acconsentito graziosamente ad amputare e dilazionare l’incremento delle licenze, e ad aumentare invece da subito le tariffe, con la gioia che si può immaginare dei suoi elettori. I tassisti gli hanno dimostrato la propria commossa riconoscenza lunedì scorso, sbeffeggiandolo in Campidoglio in un tripudio di saluti romani.
Sempre più spesso ho l’impressione che un’occupazione più adeguata ai talenti intellettuali di alcuni che nel nostro paese hanno voluto intraprendere la carriera politica sarebbe stata quella, pur nobilissima, di caldarrostaio...

Legge 40. Linee guida fuori binario

Forse una attesa troppo lunga insinua il tarlo della delusione, o forse la salute dei cittadini non è presa abbastanza sul serio. L’emanazione delle nuove Linee Guida da parte del Ministero della Salute (con quasi 9 mesi di ritardo e in un momento politico che definire poco favorevole è un eufemismo), pur aprendo uno spiraglio, non risolve i principali problemi sollevati dalla Legge 40.

Nel sito del Ministero sono elencate le principali novità:

1. la possibilità di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) viene estesa anche alla coppia in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, e in particolare del virus HIV e di quelli delle epatiti B e C, riconoscendo che tali condizioni siano assimilabili ai casi di infertilità per i quali è concesso il ricorso alla PMA. In questi casi c’è infatti un elevato rischio di infezione per la madre e il feto conseguente a rapporti sessuali non protetti con il partner sieropositivo. Un rischio che, di fatto, preclude la possibilità di avere un figlio a queste coppie;
2. l’indicazione che ogni centro per la PMA debba assicurare la presenza di un adeguato sostegno psicologico alla coppia, predisponendo la possibilità di una consulenza da parte di uno psicologo adeguatamente formato nel settore;
3. l’eliminazione dei commi delle precedenti linee guida che limitavano la possibilità di indagine a quella di tipo osservazionale e ciò a seguito delle recenti sentenze di diversi tribunali e in particolare di quella del TAR Lazio dell’ottobre 2007. Questa sentenza come è noto ha infatti annullato le linee guida precedenti proprio in questa parte, ritenendo tale limite non coerente con quanto disposto dalla legge 40.
(Il corsivo è mio).

Si ribadisce quanto affermato dalla sentenza del Tar del Lazio a proposito della possibilità di effettuare la diagnosi genetica di preimpianto: non comparendo un divieto esplicito nella legge 40, ma solo nella precedente versione delle Linee Guida, è lecito richiedere l’esame che permette di riscontrare patologie genetiche nell’embrione prima dell’impianto. Ma rimane in piedi il requisito necessario per l’accesso alle tecniche: la certificazione di infertilità o sterilità che, come stabilito dal nuovo testo, subisce un lieve ampliamento includendo le persone colpite da malattie virali.
Cade infati l’impossibilità di accedere alle tecniche per tutte le persone con malattie virali: ed è senza dubbio una buona notizia, anche se potrebbe essere discutibile la motivazione.
Nel testo delle nuove Linee Guida infatti si legge: “essendo l’uomo portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBV od HCV – l’elevato rischio di infezione per la madre o per il feto costituisce di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione, imponendo l’adozione di precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di infecondità, da farsi rientrare tra i casi di infertilità maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico, di cui all’articolo 4, comma 1 della legge n. 40 del 2004” (p. 7).

In primo luogo non è chiaro come bisogna considerare le donne portatrici di analoghe malattie. In secondo luogo si dovrebbe parlare di ostacolo ad una riproduzione responsabile, perché la riproduzione non è necessariamente impedita da una malattia virale, anche se è schiacciata dal rischio di trasmissione al partner e al nascituro. Ma questo varrebbe anche per chi è affetto o portatore di una patologia genetica (l’unica differenza è che la patologia genetica non si trasmette al partner ma “solo” al nascituro). In terzo luogo la definizione di “condizione di infecondità” per le patologie virali rischia di essere in contrasto con l’articolo 4 della legge 40 (Accesso alle Tecniche, che rimane in piedi e che non può essere scalfito da un testo, le Linee Guida, che hanno meno potere essendo soltanto applicative): “1. Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”.
Se il rischio di trasmissione di una patologia può essere considerato come un impedimento alla riproduzione e quindi permette di far rientrare i portatori o i malati nell’insieme delle persone infertili, questa possibilità dovrebbe riguardare tutte le patologie. Perché i malati o i portatori di patologie genetiche dovrebbero essere esclusi dalla possibilità di evitare di dare alla luce un figlio ammalato?
L’unica risposta possibile potrebbe venire dal Parlamento. Benché la Suprema Corte potrebbe garantire la tutela dei cittadini (tutela che include l’uguaglianza di trattamento e la garanzia della salute e della salute riproduttiva – ed è garantita dalla Costituzione italiana), tali tutele dovrebbero essere previste dal Parlamento tramite una modifica della legge 40.
Colpisce, infatti, che la legge 40 affermi l’intenzione di tutelare il concepito, ma poi sembra non considerare seriamente il rischio determinato dalle patologie genetiche, almeno in quei casi in cui non vi sia la possibilità di certificare la sterilità degli aspiranti genitori.


(LibMagazine, 1 maggio 2008)