Marco Maltoni (Manipolazioni e disinformazione su eutanasia e cure palliative. Intervista al Direttore del Reparto di medicina palliativa di Forlì, Zenit, 29 novembre 2006):
La nonna di mia moglie è da cinque anni allettata, con una demenza grave. In tutto questo tempo è stata accudita dalle due figlie, direttamente e con l’aiuto di altre persone che professionalmente (e, proprio per una piena espressione della loro professionalità, con affezione e dedizione), hanno integrato le possibilità assistenziali della famiglia. La signora non ha mai sviluppato un decubito, ed entrare nella sua stanza sempre profumata è come entrare nel cuore del mistero umano. Anche se non tutto di questa situazione è razionalisticamente incasellabile, due cose capisco. La prima, che questa donna è dentro una relazione di cura della quale è sicuramente oggetto. Ma, come dice il Dottor Guizzetti in base alla sua mirabile esperienza con i pazienti (o disabili, come lui preferisce definirli) in Stato Vegetativo Persistente, chi è oggetto di cura ne è allo stesso tempo anche soggetto attivo, per la ricchezza e l’umanità che in questa relazione emerge, sia pure in condizioni a volte estremamente faticose. La seconda, che un “di più” di umanità e dignità giunge per osmosi a chi tocca queste situazioni, rispetto al fatto che, nell’esempio portato, cinque anni fa, fosse stata somministrata una pillola del suicidio, o fossero state interrotte la nutrizione, l’idratazione e la cura. Senza volere riesumare forme, se mai ci siano state, di dolorismo e senza volere considerare sofferenza e sacrificio un obiettivo da ricercare, mi pare innegabile che essi possano far crescere la nostra consistenza umana, come è esperienza comune di chi lavora a contatto con malati e famiglie che per mesi o anni accettano non passivamente il mistero della propria condizione. Una osservazione a latere, ma non del tutto marginale, è che, se fosse vero il contrario, cioè se la vita umana fosse degna di essere vissuta solo quando esprimesse le qualità proprie dell’uomo (e che tali ontologicamente rimangono, indipendentemente dal loro possibile livello di attuale espressività), chi, se non un impersonale, astratto, e ostile potere potrebbe determinare “quali” condizioni, quale “qualità di vita” sarebbero da ritenersi sufficienti? Quella del paziente terminale, dell’anziano demente, del gravemente disabile, del paziente psichico, del paziente gravemente depresso, del paziente in stato vegetativo, del bambino o del neonato con disabilità o malformazioni, della ragazzina anoressica o bulimica? In altri termini, aperta la falla nella diga o iniziata la piccola valanga da una palla di neve, la progressione è purtroppo esponenziale, tanto che alle forme fatte passare per “nobili” di eutanasia volontaria, nei paesi in cui essa è legalizzata, si stanno sempre più aggiungendo anche quelle meno emotivamente presentabili, come la non-volontaria e la involontaria.(A chi è piaciuto l’argomento della nonna può approfondire: Marco Maltoni, insieme a Carlo Valerio Bellieni, ha scritto il libro La morte dell’eutanasia. I medici difendono la vita, 2006, Firenze, Società Editrice Fiorentina.)
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