Sul Riformista è apparso qualche giorno fa un editoriale di Angelo Bolaffi («Amato, Habermas e l’etica del limite», 24 giugno 2006), in cui l’autore si chiede, ispirandosi fra l’altro al pensiero di Jürgen Habermas in materia di bioetica, se tutto ciò che è tecnicamente possibile sia anche moralmente lecito, ovvero se non sia necessario costruire un’«etica del limite», fondata sul «principio di precauzione».
A Bolaffi hanno risposto prima Anna Meldolesi («Il riformismo precauzionale è un ossimoro», 28 giugno), e oggi, in una lettera al quotidiano, Federico Punzi («I due fondamentalismi», 29 giugno). Scrive la Meldolesi:
Habermas non appare certo una soluzione ai nostri problemi bioetici, anzi assomiglia più a un sintomo. Il fatto che un intellettuale di questo calibro possa compiere un’incursione tanto spericolata nel mondo della bioetica, senza curarsi di costruire il suo ragionamento filosofico su alcuna conoscenza scientifica di base e dichiarando espressamente di affidarsi a «intuizioni confuse», è il segnale evidente di quanto lavoro c’è ancora da fare al di fuori del mondo anglosassone perché la cultura scientifica trovi il rispetto che merita.E Punzi:
Rigetto … l’«etica del limite». Di fronte a ogni progresso, scientifico o sociale, qualcuno è sempre prodigo di moniti a «non lasciare la strada vecchia per la nuova». C’è sempre un ordine millenario e «naturale» minacciato dal caos. … L’uomo non è parte della natura? Non è «naturale» ciò che egli fa? Come può dirsi «contro natura» l’omosessualità? Quando usiamo dire che qualcosa non è «naturale», volendo così bandirla, intendiamo in realtà che non è «giusta», applichiamo una categoria del naturale che risponde alla cultura di un’epoca e di un ambiente sociale ben definiti. … La ricerca di una cura può fermarsi di fronte a ciò che Habermas trova «osceno»? Senso del pudore, disagio intellettuale, paura dell’ignoto sono i limiti che la scienza non può varcare? Quale limite portarci dietro, allora? Non sia etico, ma quello liberale del rispetto della libertà dei cittadini.Non c’è dubbio, in effetti, che il limite alla scienza e alla tecnica non possa essere imposto in nome delle idiosincrasie molto personali di qualche filosofo (su Habermas e le sue ubbie si veda questa recensione della nostra Chiara Lalli), né in base a un principio di precauzione che, se interpretato con coerenza, comporterebbe la stasi definitiva dell’azione umana. Il limite principale dev’essere costituito dall’esigenza liberale di rispettare la libertà altrui, ovvero di non arrecare danno; ma non è, credo, l’unico. Se alcune tecnologie dovessero rivelarsi alla portata solo di una élite ristretta di privilegiati in grado di permettersele, si correrebbe il rischio di creare una situazione di ineguaglianza mai vista nella storia: per esempio, l’ingegneria genetica migliorativa potrebbe condurre alla creazione di quella che qualcuno ha chiamato la «genobiltà» – un termine il cui significato è trasparente. In questa situazione la stessa democrazia difficilmente sopravviverebbe (e non si pensi che questa sia una prospettiva remota, da fantascienza: oramai dovremmo essere tutti coscienti dell’accelerazione in corso). Penso dunque che una regolamentazione che contragga l’intervallo temporale tra early adopters e diffusione di massa potrebbe rendersi necessaria; poi resterà soltanto da garantire le opportune salvaguardie per chi non vorrà seguire in questa audace avventura il resto del genere umano.
1 commento:
La scienza, soprattutto quando diventa tecnologia, non può rifiutare le sue responsabilità sociali. Più è potente, più responsabilità ha.
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