sabato 30 settembre 2006

Da che parte pende il piano inclinato?

Le reazioni al caso Welby da parte di chi è contrario all’eutanasia mostrano una sconsolante uniformità: se si concedesse ai malati il diritto a una morte pietosa – così va l’argomentazione preferita di questi commentatori – in capo a pochissimo tempo ci ritroveremmo all’eutanasia di Stato, con commissioni mediche preposte a decidere chi sia degno di vita e chi no, e a sopprimere a forza chiunque non soddisfi i requisiti necessari. Scivoleremmo tutti su un piano inclinato che dal liberalismo ci condurrebbe inevitabilmente al nazismo.

Ciò che più sconcerta è l’impermeabilità che chi avanza questo argomento mostra alle obiezioni. Non si tratta soltanto dell’incapacità di pensare tipica di chi ripete senza averli vagliati i luoghi comuni della propaganda: vedremo alla fine di individuare un motivo più profondo. Ma bisogna forse anche ammettere una carenza di chiarezza da parte dei sostenitori dell’eutanasia, a cui cercherò qui, come posso, di ovviare.
Quello che vogliamo non è stabilire un criterio oggettivo con cui valutare se le sofferenze di un malato superino ormai la sua capacità di sopportazione, né fissare una soglia minima di qualità della vita, al di sotto della quale sia meglio per chiunque morire. Non si tratta insomma di dare ‘ragione’ a Welby, nel senso di convenire che una persona nelle sue condizioni non potrebbe fare altro che chiedere l’eutanasia, o che comunque se fossimo noi al posto suo faremmo le medesime scelte. Men che meno vogliamo affermare che la vita di Welby sia senza valore, e rappresenti un peso per la società e un costo improduttivo per lo Stato. Quello che vogliamo, invece, è che si riconosca che ciascuno è il miglior giudice di ciò che è bene per se stesso; la libertà di Welby va dunque rispettata (assieme alla libertà di chi lo volesse aiutare a compiere la sua volontà). E questo è del tutto indipendente da come ci comporteremmo noi nella sua situazione, o da come effettivamente si comportano altri affetti dallo stesso male: i casi esemplari di persone che al contrario di Welby desiderano vivere anche se sono attaccati a un respiratore e non possono più né parlare né muoversi dal letto, non possono indurci a cambiare opinione. Contrariamente a quello che scioccamente pensa qualcuno, non conta neppure il valore che la vita di Welby ha per noi, e che avrebbe, in quanto esempio consolante, anche se Piergiorgio cessasse di donarci i suoi interventi in rete: non conta, perché i costi di quella esistenza non siamo noi a doverli sopportare. Infine, nel momento in cui affermiamo così solennemente il valore della scelta individuale, allontaniamo anche la possibilità che lo Stato si ingerisca in queste vicende: non ci sarebbe nulla di più contraddittorio che affermare il diritto di decidere della propria vita, solo per cederlo subito dopo a una commissione governativa (che un giorno potrebbe oltretutto decidere che è la nostra vita a non essere più degna di essere vissuta). Il ruolo della collettività dovrà sempre limitarsi ad accertare che la persona abbia effettivamente bisogno di aiuto per morire, che sia pienamente capace di intendere e di volere, che conosca la prognosi medica, e che la sua decisione sia irrevocabile.
In tutto questo non c’è nulla di mostruoso o disumano. Tutti ricordiamo il caso recente della donna che aveva rifiutato di farsi amputare un piede, benché l’intervento fosse l’unico modo per salvarle la vita, ritenendo che con quella menomazione la propria esistenza non sarebbe stata comunque degna di essere vissuta. Nel rispetto degli artt. 13 e 32 della Costituzione alla donna non è stato imposto alcun trattamento medico, e dopo poco è morta. Credo che la grande maggioranza delle persone (me compreso) avrebbe deciso diversamente, se si fosse trovata nelle medesime condizioni; eppure quasi nessuno si è scandalizzato per questo episodio, o ha pensato che fosse il primo passo sulla strada che conduce all’eutanasia coercitiva per tutte le persone a cui manchi una mano o un piede. Le differenze col caso Welby ci sono, è ovvio, eppure tra omissione ed azione la distanza non è poi così enorme.

Naturalmente, anche limitandosi al rispetto rigoroso della volontà del malato i problemi non mancano. Quando la persona è divenuta incapace di volere può essere ancora possibile ricostruire i suoi intendimenti passati, soprattutto se è disponibile un testamento biologico; ma se l’incapacità è permanente (come nel caso degli infanti o dei disabili mentali), la decisione spetta ai suoi tutori legali. In questo caso il ruolo dello Stato viene ad ampliarsi, per la necessità di vigilare che sia fatto il migliore interesse del malato; ciò comporta fatalmente la stesura di protocolli, sia pure particolarmente rigorosi (un requisito che credo necessario, benché forse crudele, potrebbe essere quello che il malato non sia in grado di raggiungere mai la capacità mentale sufficiente a decidere da solo). L’obiezione che in questi casi si violerebbe l’autonomia personale è inconsistente, visto che i tutori hanno non solo il diritto ma anche il dovere di scegliere ciò che è meglio per il malato, e che non decidere significherebbe abbandonare una persona indifesa a lunghi, insopportabili tormenti.
In alcuni casi il problema delle risorse disponibili si può effettivamente presentare: i reparti di rianimazione hanno una capienza limitata, e i medici si possono trovare facilmente nella situazione di dover rifiutare per esempio il ricovero di un ragazzo vittima di un incidente stradale perché l’ultimo letto disponibile è occupato da un anziano in coma per un ictus, con scarsissime possibilità di riprendersi. Non voglio suggerire soluzioni semplicistiche a un dilemma etico così tragico, ma a una scelta non ci si può comunque sottrarre, quali che siano i propri convincimenti. Le risorse disponibili sono limitate, e il più delle volte aggiungere qualche letto a un reparto significa semplicemente ritrovarsene occupati in permanenza un numero maggiore di prima.
Un problema connesso, ma che può confondere il dibattito, è quello di stabilire fino a che punto si può continuare a presumere la presenza di autocoscienza – e quindi di vita personale – in un cervello estremamente danneggiato, come nel caso dello stato vegetativo permanente o delle fasi più avanzate delle demenze. Questa non è che un’estensione del concetto di morte cerebrale (si è parlato spesso in passato di introdurre il concetto di morte corticale, cioè della sola corteccia cerebrale), dove non si stabilisce affatto che una persona non sia più ‘degna’ di vivere, ma piuttosto che una persona vera e propria non c’è più.

Chi è contrario all’eutanasia non si limita di solito ad affermare che la vita ha sempre e in ogni circostanza valore: svaluta infatti anche la capacità di giudizio delle persone che non riescono più a trovare una ragione per proseguire un calvario insopportabile, e ne riduce la libera scelta ad «errore» e «debolezza». Ma soprattutto svaluta il ruolo dell’individuo di fronte a una Verità assoluta che lo trascende, e quindi anche, per logica conseguenza, di fronte a uno Stato che di quella Verità si faccia garante. E tanto aliena dal dubbio è la sua convinzione che lo Stato debba essere etico, che finisce per attribuirla – cambiata di segno – anche ai suoi avversari, rimanendo quasi sempre incapace, come vedevamo all’inizio, di comprendere il loro appello alla libertà individuale. Ma è proprio lui a propagare in questo modo l’idea che è stata alla base di mali giganteschi: l’idea che lo Stato o la comunità possano legittimamente privare gli individui della loro libertà. È un’idea che ha servito molte ideologie, che oggi serve l’ideologia della sacralità della vita, e che domani potrebbe cambiare una volta di più padrone. Da che parte pende, allora, il piano inclinato?

venerdì 29 settembre 2006

Intanto in Spagna

Despenalizar la eutanasia en pacientes “muy graves o terminales”; ésta es la apuesta del Comité Consultivo de Bioética de Cataluña (CCBC). Este órgano, por otra parte, descarta la regulación de la clonación con fines reproductivos. Ambas declaraciones han sido hechas públicas en la presentación de dos informes sobre sendas materias, en el Institut d’Estudis Catalans.

Rogelí Armengol, responsable del informe sobre eutanasia y ayuda al suicido y Coordinador del Servicio de Psiquiatría del Hospital Vall d’Hebron, explicó las premisas necesarias para garantizar la buena práctica en este tratamiento. Así, dijo que la despenalización de la eutanasia ha de estar condicionada a enfermos muy graves o terminales, que hayan expresado por escrito esta ayuda. Señaló, además, que “a menudo, muchos de los que se oponen a la eutanasia desconocen que estos pacientes morirán en pocos días con un gran sufrimiento”. En esta línea, el psiquiatra resaltó la importancia de los cuidados paliativos, “que deben ser útiles para que este tipo de pacientes terminales llegue al final de su vida sin dolor”.

En cuanto a la clonación reproductiva, el responsable del informe, Josep Santaló, explicó que las conclusiones de su investigación “desaconsejan la clonación con fines reproductivos, al considerar que esta práctica no garantiza una eficacia suficiente que permita su desarrollo sin peligro”. El documento, por su parte, aconseja la “clonación con fines terapéuticos”, que puede ayudar a la investigación de nuevos tratamientos y fármacos para enfermedades como la diabetes.
Esta institución desaconseja el uso de la clonación con fines reproductivos, Azprensa, 29 settembre 2006.

Chi è il padre?

ROMA - Un caso davvero singolare e doloroso per una coppia che da tempo desiderava un figlio e che si è affidata a un intervento di fecondazione artificiale. Al quinto tentativo è nata una bambina. Ma dopo qualche giorno l’incredibile rivelazione: il gruppo sanguigno è risultato incompatibile con quello della mamma e del papà e il test del Dna ha rivelato che il padre era un altro. La piccola sarebbe, insomma, figlia di uno sconosciuto. La coppia ha denunciato l’autore dell’intervento, Riccardo Agostini, primario al policlinico Umberto I e docente all’Università la Sapienza, che ora è indagato per truffa e alterazione di stato.

LA VICENDA - La vicenda risale allo scorso anno, la coppia ha presentato una denuncia nel maggio del 2005. Ora il pm Alberto Caperna ha inviato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari ad Agostini. Nel corso dell’inchiesta il magistrato ha affidato una consulenza a tre esperti, Domenico Arduini, Giuseppe Novelli e Giulio Sacchetti. «Si evidenzia che il materiale biologico presente sul “dispositivo” non appartiene al signor C.M.», si legge nelle conclusioni della relazione. Il «dispositivo» è un tubicino collegato alla siringa usata per l’inseminazione. Oggetti che la coppia aveva conservato (secondo i loro difensori ermeticamente chiusi) e che la procura ha acquisito. Per due volte nel 2004, a Torino e in Emilia Romagna, sono state scambiate le provette. Qui, invece, invece, i prelievi del liquido seminale e i tentativi di fecondazione sono stati contestuali. L’avvocato di Agostini, spiega che alla fecondazione del 2 febbraio 2004, quella riuscita, erano presenti anche le assistenti del ginecologo e che i coniugi hanno «constatato che lo sperma inoculato alla signora era quello prelevato al marito». Non solo: la bimba «è nata 15 giorni dopo la fine del tempo regolamentare e tale circostanza è di estrema rilevanza, dal momento che in caso di inseminazione artificiale le nascite sono sempre premature trattandosi di gravidanze ad alto rischio. L’accusa è assurda. Un accademico noto e prestigioso come Agostini non si presterebbe mai a fare una sostituzione di liquido seminale per guadagnare 500 euro in più. Non possiamo non sospettare che la signora in quel periodo avesse una relazione extraconiugale oppure che, all’insaputa del marito, si fosse sottoposta anche a un’inseminazione eterologa, che allora non era vietata».
Bimba in provetta, ma il dna non è del padre, Il Corriere della Sera, 28 settembre 2006.

Chi parla per Maria?

Sull’Unità di ieri Furio Colombo scrive a proposito della piccola bielorussa condannata a tornare in orfanotrofio («La bambina che paga per tutti», 28 settembre 2006):

Questo Paese, che ama tanto i bambini e che ci spiega due o tre volte al giorno che prima di tutto viene la famiglia, è pronto a spedire Maria, come un pacchettino, da una famiglia che la ama ad un orfanotrofio che – nel migliore dei casi – la considera un numero. E nel peggiore, come già le è accaduto, un oggetto disponibile.

Aggiornamento: Furio Colombo torna sull’argomento con una lettera aperta all’ambasciatore bielorusso («Ambasciatore mi faccia incontrare Maria», L’Unità, 2 ottobre).

giovedì 28 settembre 2006

Il blog di Richard Dawkins!

E noi di Bioetica non ne sapevamo nulla! Incredibile.
Ecco qualche assaggio da un articolo del 1 Agosto («Collateral Damage 1: Embryos and Stem Cell Research»):

George Bush has just vetoed a bill, approved by both Houses of Congress, which would have allowed federal funding for embryonic stem cell research. Apparently the President’s ethical philosophy places a higher value on American embryos than on Iraqi or Lebanese men, women and children. Don’t misunderstand ‘embryos’, by the way. We are not talking miniature babies here. The ‘embryos’ used for stem cell research are no bigger than a pinhead, and completely lacking in sentience of any kind.The illogical and hypocritical inconsistency between Bush’s stance on embryonic stem cell research on the one hand, and on slaughtered and maimed Iraqis and Lebanese on the other, is the subject of this article. It is an inconsistency that you could find only in a mind massively infected with the disease of religion. …
Unlike the disputed (that’s putting it mildly) advantages of invading Iraq and bombarding Lebanese villages, the positive side of embryonic stem cell research, then, is overwhelmingly agreed. How about the negative side? How does the collateral damage in embryo deaths stack up against the collateral damage in Iraq and Lebanon? Is there, indeed, a negative side at all? Is it clear that killing a small cluster of embryonic cells is morally worse than, say, boiling a lobster? The lobster has a nervous system and probably feels pain. The embryonic cells certainly don’t feel anything at all. …
If you ask me whether I care more about the destruction of a blastocyst, which theoretically has the potential to develop into a conscious human being, or the painful killing of an adult cow in an abattoir which has already reached its full potential, my answer is not in doubt. If I see a terrified cow about to have its throat cut by a Jewish or Muslim slaughterman who insists, purely for religious reasons, that it must be fully conscious when the knife hits, I want to intervene on its behalf. If I see a human blastocyst the size of a pinhead about to be flushed down the drain, do I want to intervene on its behalf? Oh come on, get real.

Si parla d’altro, non di Welby

Nelle dichiarazioni e negli articoli sul caso di Piergiorgio Welby si intravvede oramai una costante: vi si parla di ogni cosa, tranne che del problema posto da Welby. Come nota JimMomoChi è il “padrone” della vita?», 28 settembre 2006), anche nella puntata di Otto e mezzo di ieri il tema è stato solo sfiorato (nonostante qualche flebile tentativo di Ritanna Armeni di riportarlo al centro della discussione). Più o meno consapevolmente, si fa di continuo confusione con questioni del tutto differenti: è del resto evidente il tentativo dei politici della maggioranza di evitare un argomento scabroso, che causerebbe problemi al costituendo Partito Democratico (che – a quanto pare – senza la quinta colonna ruiniana dei Bobba e delle Binetti non potrebbe reggersi in piedi...).

Cerchiamo allora di ripetere qualche ovvia distinzione:

  1. Ciò che chiede Piergiorgio Welby non è semplicemente l’interruzione dei trattamenti sanitari: come già notava oggi Malvino («A Mirko», 28 settembre), nel suo caso questo significherebbe spegnere il respiratore artificiale, e lasciarlo morire orribilmente per asfissia. Ciò non comporta necessariamente il ricorso al suicidio assistito o all’eutanasia attiva: è possibile che una sedazione profonda possa consentire di sospendere la ventilazione artificiale (non è chiaro se ciò sarebbe possibile anche da un punto di vista giuridico, benché l’evoluzione del diritto sembri andare in questa direzione). Ma ci sono comunque casi, per il resto analoghi a quello di Welby, in cui non sarebbe presente un sostegno vitale da sospendere, e che richiederebbero allora un intervento attivo. Impedirlo significherebbe creare oggettivamente una discriminazione tra malati.
  2. Il caso di Welby non rientra propriamente nella categoria dell’accanimento terapeutico. È vero che noi lo descriveremmo così, e che lo stesso Welby parla a buon diritto di un «testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche»; ma nel linguaggio medico per «accanimento terapeutico» si intende il prolungamento inutile dell’agonia di un malato, e questo non è certamente il caso di Welby.
  3. Neppure hanno nulla a che vedere col caso presente le cosiddette cure palliative, che consistono nel placare dolori invincibili con analgesici e anestetici: non è il dolore fisico ciò a cui Welby vuole porre fine, ma piuttosto la sofferenza che deriva dalla perdita dell’autonomia e della dignità; e per questa sofferenza non esiste purtroppo terapia.
  4. Si è parlato spesso, nei commenti al caso Welby, del testamento biologico, a proposito del quale si è incentrato il dibattito politico negli ultimi tempi: ma col testamento biologico si fissano delle direttive anticipate in cui si accettano o si rifiutano trattamenti medici, per l’eventualità che non si sia più in grado in futuro di esprimere la propria volontà, mentre Piergiorgio Welby è evidentemente in pieno possesso delle proprie facoltà mentali.
  5. L’argomento più indelicato, anzi insultante, che si è sentito in questi giorni, è infine quello di chi sostiene che l’appello di Welby sarebbe in realtà il grido d’aiuto di un malato che soffre di solitudine e abbandono; si ignora così – o si finge di ignorare – quello che le cronache hanno raccontato più volte, e cioè che Welby è circondato dall’affetto della propria famiglia e dei propri amici. Uguale insensibilità dimostra chi si improvvisa psichiatra e si avventura in diagnosi a distanza, attribuendo la richiesta di morire a una depressione non curata («Buttiglione: chi chiede la morte è depresso, non va abbandonato», Il Messaggero, 25 settembre, p. 5).
Quando si chiede di riportare il dibattito alla questione specifica posta da Piergiorgio Welby, si riceve spesso la risposta che la politica non può occuparsi dei casi personali o eccezionali. Ma anche se fosse così, il caso di Welby non è purtroppo isolato. Speriamo che i nostri politici abbiano infine più compassione per i malati che timore di alienarsi le simpatie d’Oltretevere.

Aborto terapeutico

Anche la vita handicappata ha ugualmente valore per Dio. Il previsto handicap di un bambino non può essere motivo di aborto poiché anche la vita handicappata ha ugualmente valore in sé ed è accolta da Dio. Su questa terra mai e per nessuno ci potrà essere la garanzia di una vita senza limitazioni corporali, psicologiche e spirituali.
La Chiesa assiste con grande preoccupazione all’aborto auspicando un “risveglio” nella discussione che è in atto in Germania da parte degli uomini politici al fine di creare una coscienza più profonda.
Firmato Papà Ratzinger, oggi a Castel Gandolfo per il ricevimento del nuovo ambasciatore tedesco presso la Santa Sede Hans-Henning Horstmann.

mercoledì 27 settembre 2006

Il nostro bene lo decidiamo noi!

Se in questo momento è impossibile non partire dal caso Welby per discutere di eutanasia, è forse però doveroso spostare il dibattito su un altro piano. Lasciando da parte la storia dolorosa di una persona che ha manifestato la propria volontà e chiesto giustizia, con una dignità e una pacatezza che difetta alla discussione che ne è seguita.
La questione è se possa essere morale e legalmente ammissibile richiedere la buona morte. Dal punto di vista morale è sufficiente richiamare la libertà individuale come base per giustificare anche la libertà di morire. Libertà individuale che è (e deve essere) un valore tanto fondamentale da richiedere ragioni gravi e forti per giustificarne la limitazione. Libertà individuale che si oppone fermamente al paternalismo e alla pretesa da parte degli altri di giudicare quale sia il nostro bene. Ogni persona può decidere di rifiutare trattamenti medici anche se questo rifiuto comporta il rischio o la certezza della morte. Ogni persona in grado di intendere e di volere può, dunque, non solo rifiutare ogni forma di accanimento terapeutico, ma anche rifiutare una terapia che gli salverebbe la vita. Questa possibilità, oltre ad essere moralmente giusta, è legalmente riconosciuta e protetta. E dal dominio morale si scivola quasi impercettibilmente in quello legale. Nessun medico può decidere al posto del paziente, nessun medico può costringerlo ad assumere delle pillole e soprattutto nessuno può imporgli di vivere.
Sono molti gli argomenti contrari all’eutanasia mormorati o urlati in una discussione caotica e segnata dall’irrazionalità, e che pretendono di assurgere a regola universale. Come l’appello alla “natura” per sbarazzarsi delle domande complesse rivolte da chi chiede di morire. La natura è un terreno scivoloso, e cercare di risolvere i problemi morali dei malati dicendo loro “morire è innaturale” è ingenuo. Perché è la loro stessa sopravvivenza ad essere innaturale, affidata alla tecnologia medica che oggi riesce a tenere in vita chi, soltanto qualche decennio, fa sarebbe morto. Perché la medicina è innaturale – e non per questo immorale! E perché, paradossalmente, è proprio la morte ad essere naturale, di contro ai macchinari (artificiali) che tengono in vita le persone come Welby o le tante affette da altre patologie. L’identificazione tra naturale e moralmente buono è sbagliata e arrogante.
È importante ricordare che quanti chiedono la libertà, anche quella di morire, non desiderano imporre la propria scelta. Chiedono soltanto che le loro scelte siano rispettate; magari non condivise, ma rispettate.
E una possibilità legale di fare ricorso all’eutanasia non comporta la compilazione di un elenco di persone ‘non degne’ di vivere che qualche tirannico avversario della disabilità vorrebbe eliminare, né l’autorizzazione dello Stato per il loro sacrificio. Significherebbe soltanto che chi desidera interrompere una esistenza devastata dalla malattia e dalla sofferenza potrebbe farlo senza sotterfugi, senza nascondersi.
Non si può obbligare nessuno a compiere le azioni più elementari: uscire, studiare, avere amici. Nemmeno se fossimo sicuri che sarebbe benefico. Non si può, a maggior ragione, obbligare nessuno a vivere, perché non è possibile sostituirsi alla volontà personale. Scegliere se e come morire dovrebbe essere un diritto fondamentale di ogni cittadino. La sacralità della vita, tanto spesso invocata come baluardo contro ogni forma di eutanasia, è una forma sottile e raffinata di abuso, di assenza di rispetto. La morte in alcuni casi costituisce l’unico modo per sottrarsi ad una esistenza gravemente compromessa, e ognuno di noi dovrebbe avere la possibilità di scegliere.
La morte qualche volta non è la cosa peggiore che possa capitarci. Condannare chi rifiuta di sopravvivere è un modo ipocrita di sottrarsi alla responsabilità personale. E non sarebbe possibile concludere meglio di quanto abbia fatto Welby: “Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui. Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico”.

martedì 26 settembre 2006

L’Italia di Giuliano Ferrara

Sul Foglio di oggi, a p. 4, nella rubrica delle lettere, Giuliano Ferrara risponde così a un lettore a proposito del caso Welby:

Ciascuno faccia come vuole, con l’affetto dei suoi cari e il medico pietoso, ma non ci si imponga il chiacchiericcio salutista o la vita come una sequenza di pillole antidolorifiche, perché è vano e non è vero. Morire sì, ma non esercitando un diritto.
C’è, in queste poche righe, tutta l’Italia di Ferrara e di quelli come lui: l’Italia grossolana e ignorante, che paragona il libero dibattito su una tragedia al «chiacchiericcio salutista» e l’eutanasia all’ultima di «una sequenza di pillole antidolorifiche». L’Italia dell’ossequio ai potenti, che non vanno turbati con la richiesta di diritti, o con la pretesa di limitare il loro capriccio sovrano. L’Italia ipocrita, che prima striscia davanti al Vescovo e al Podestà, e poi disprezza chi non si «arrangia» secondo i propri comodi. E c’è, soprattutto, l’Italia di chi non ha un pensiero per chi non può trovare un «medico pietoso», ed è dunque destinato a morire come un cane. L’Italia oscena dell’anarchia autoritaria e degli atei devoti.

Un sondaggio sull’eutanasia

Renato Mannheimer presenta i risultati di un sondaggio sulle opinioni degli Italiani a proposito dell’eutanasia («Quasi un cattolico su due è favorevole alla legalizzazione», Corriere della Sera, 26 settembre 2006, p. 13). I favorevoli senza condizioni sono il 20%, i favorevoli solo nel caso di dolore fisico insopportabile per il malato sono il 38%, i contrari il 37%; risponde «non so» il 5%. Complessivamente, i favorevoli a qualche forma di eutanasia sono dunque il 58% (il 45% tra chi si dichiara cattolico).

Sullo stesso numero del Corriere ecco le opinioni di alcuni politici (Margherita De Bac, «La Chiesa: “Eutanasia percorso di morte”. In Senato la legge sul testamento biologico», p. 12): per Sandro Bondi «il testamento biologico è un atto che non confligge con i precetti della fede» (a quanto pare questa è per Bondi una precondizione ineludibile per approvare una legge, anche dove non esiste più la religione di Stato...); per Roberto Calderoli, «Comunque la si voglia girare l’eutanasia è un atto che, direttamente o indirettamente, toglie la vita e quindi è un assassinio» (strano, mi sembrava di ricordare che la Lega si fosse battuta per evitare il carcere a chi spara a un malintenzionato che sta per entrargli in casa...).

Il paese reale e il mondo della politica: su due pagine opposte.

Eutanasia: la vita è un dono di cui non possiamo disfarci

«LA VITA non è una proprietà privata dell’uomo ma è un dono ricevuto e un dono che deve essere vissuto in pienezza, nell’offerta di sé agli altri». Il teologo monsignor Bruno Forte, vescovo di Chieti spiega perché per la Chiesa l’eutanasia non è ammissibile. «La libertà della persona non è mai identificabile con la possibilità o la volontà di disporre arbitrariamente di tutto. Ci sono dei valori assoluti a cui chiunque, credente o non credente, è chiamato ad attenersi» aggiunte il prelato che precisa: «come vale per tutti il principio non uccidere, nei confronti della vita altrui, vale anche nei confronti della propria vita perché quella vita è il valore assoluto su cui la convivenza umana si costruisce come una convivenza civile, capace di costruire legami autentici. Compromettere questo principio, anche per chi non crede, significa minare alla base il valore e la convivenza umana». Sul tema dell’eutanasia «non c’è nulla di peggio dell’avviare dibattiti sotto l’effetto di un’onda emotiva». A dirlo è Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, che spiega: «Non è una questione religiosa. Ancora una volta è in gioco la ragione». «Sarebbe folle – continua Casini – arrivare in Parlamento avendo negli occhi le immagini di Piergiorgio Welby che le televisioni hanno profuso in questi giorni. La presentazione di un caso particolarmente coinvolgente e capace di commuovere l’opinione pubblica è un metodo di azione Radicale ben noto e ripetutamente sperimentato in cui è presente una venatura di violenza perché intende cancellare con il fascino dell’emozione la lucidità della ragione». «Un dibattito serio e costruttivo – aggiunge inoltre – che consideriamo senz’altro utile, non può non prendere le mosse dal lavoro fatto dal Comitato Nazionale per la Bioetica che più volte si è pronunciato in materia di eutanasia attiva e passiva».
Movimento per la vita in allarme, Il Tempo, 26 settembre 2006.

Andiamo per ordine. Il fatto che la vita sia un dono non è universalmente condivisibile. Ma anche se la vita fosse un dono, non si capisce per quale ragione saremmo vincolati a tenercelo. Questioni di educazione a parte, è frequente che un dono si ricicli (spesso nelle cene di Natale…) o che non sia usato o apprezzato o che semplicemente venga ‘abbandonato’. I valori assoluti non esistono, sarebbero obblighi, imposizioni illegittime. E soprattutto non dovrebbero avere potere di decidere della nostra vita. Secondo Bruno Forte probabilmente anche la fede è un valore assoluto. Ma la parola chiave è secondo (Bruno Forte). In una discussione seria e ponderata non c’è spazio per i valori assoluti. La legge, poi, non si costruisce sui valori personali (di questo alla fine si tratta: pensare che la fede o la vita siano valori assoluti è una questione soggettiva).
Tanto per essere puntigliosa, suggerirei anche che nemmeno il principio ‘non uccidere’ è assoluto: devo fare degli esempi o ci arrivate da soli? (Legittima difesa vi dice qualcosa?).
Il valore e la convivenza umana non possono basarsi su muri costruiti dall’ideologia e dalla certezza di essere in possesso della Verità.
Ma veniamo a Carlo Casini. Inappuntabile la premessa: “non c’è nulla di peggio dell’avviare dibattiti sotto l’effetto di un’onda emotiva”. Ma la conseguenza non è necessaria: è possibile lasciare al ‘caso umano’ il giusto spazio: il pretesto per avviare un confronto su un tema tanto scomodo qual è l’eutanasia e tutto quanto la circonda. La ragione non è per forza cancellata dall’emozione. E soprattutto la ragione non è (purtroppo) presente in assenza del caso umano. Quante idiozie abbiamo sentito anche senza lo spunto di una storia particolare?
E perché un dibattito serio e costruttivo dovrebbe prendere le mosse dai pareri del CNB? Il CNB non è che un organo consultivo, e i suoi pareri possono essere criticabili. In particolare, il CNB non ha brillato sulla questioni attinenti all’eutanasia: basti ricordare il parere sull’idratazione e l’alimentazione forzati, fregandosene del diritto di ognuno di noi di rifiutare le cure e della nostra libertà (costituzionalmente stabilita) di autodeterminarci. E perché non smettere una volta per tutte di usare distinzione insulse e infondate come quella tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva? Sarebbe ora.

Not Talking, Natalie Dee, january 2006.

lunedì 25 settembre 2006

Eutanasia ed equivoci

Mario Adinolfi («Saremmo più soli, senza Piero Welby», 25 settembre 2006):

Dirò solo che se a Piero Welby fosse consentito di morire, saremmo più soli. La sua non è una vita meramente biologica, la sua non è una vita priva di capacità di relazione, la sua non è una vita inutile. Nessuna vita lo è. E se aprissimo lo spazio ad un pensiero del genere, arriveremmo presto al genocidio.
Perché quando si parla del valore che la propria vita ha per se stessi, c’è sempre qualcuno che capisce che si sta parlando del valore che la propria vita ha per gli altri? È davvero un concetto così difficile da comprendere?

Rino Cammilleri perde un’ottima occasione per tacere

L’ultrà clericale Rino Cammilleri sembra aver cominciato una sua piccola crociata personale contro il trapianto di organi. Dopo aver inciampato qualche giorno fa su una questione tecnica (come messo in rilievo da Vinoemirra, clericale anche lui ma prima di tutto anestesista), ci prova di nuovo, e questa volta fa le cose in grande («Ma una persona non può essere soltanto un corpo», Il Giornale, 25 settembre 2006):

Sul numero dell’8 settembre 2006 della rivista Science alcuni ricercatori delle università di Cambridge e Liegi coordinati dal neurologo Adrian Owen hanno rese note le esperienze scientifiche condotte su di una paziente in stato di morte cerebrale. La donna, una ventitreenne inglese ridottasi in coma per un incidente stradale e poi rimasta in stato vegetativo permanente, grazie a un sofisticato sistema di scanner Mri (immagini per risonanza magnetica), ha mostrato di rispondere a stimoli verbali: «Nonostante la diagnosi di stato vegetativo, la paziente conservava la capacità di comprendere ordini parlati e di rispondere attraverso la sua attività cerebrale».
Insomma, l’attività cerebrale di questa donna era uguale a quella di una persona normalmente cosciente. … Così hanno commentato i ricercatori: «Inoltre, la sua decisione di collaborare con gli autori immaginando compiti concreti quando le chiedevano di farlo rappresenta un chiaro atto intenzionale, che conferma al di là di ogni dubbio che era consapevole di se stessa e di ciò che la circondava».
Il fatto apre scenari nuovi, perché una persona «consapevole di se stessa e di ciò che la circonda» non è morta ma viva. … Se la cosiddetta «morte cerebrale» non è affatto morte e nemmeno cerebrale, come si può continuare a espiantare soggetti che, a quanto pare, sono vivissimi anche se non sembra? Nella polemica tra sostenitori dell’eutanasia e obiettori, chi pretendeva l’ultima parola era la medicina. Come nel caso di Terry Schiavo. Ma adesso pare proprio che la medicina abbia cambiato parere, e allora non solo l’eutanasia ma anche l’espianto di organi dovrà essere ripensato. E pure la Chiesa dovrà rivedere qualcuna delle sue certezze, visto che raccomandava la donazione di organi. Altro che «testamento biologico».
Il dotto Cammilleri, insomma, vorrebbe guidare i suoi stessi pastori; tanta ambizione, però, dovrà essere purtroppo rimandata ad altra occasione. La morte cerebrale – la condizione di chi può essere soggetto all’espianto degli organi – e lo stato vegetativo persistente (o permanente) – la condizione della donna dell’esperimento riportato da Science – sono infatti due cose completamente differenti. Nella morte cerebrale l’intero cervello è morto, e ogni sua attività è per definizione assente; il paziente è tenuto in vita tramite un respiratore. La probabilità che una persona in questo stato riprenda le normali funzioni del cervello è pari a quella che a un amputato ricresca l’arto che ha perso. Nello stato vegetativo persistente il cervello ha ricevuto un danno di estensione variabile, ma alcune aree – in primo luogo il tronco cerebrale, che regola le principali funzioni vegetative – sono vive e funzionanti. I pazienti non rispondono alla maggior parte degli stimoli (e devono trovarsi in questa condizione da almeno un anno, prima che la diagnosi sia possibile), ma respirano autonomamente e non si trovano in coma. Ovviamente la legge proibisce di espiantarne gli organi.
Questa distinzione è stata ripetuta fino alla nausea in innumerevoli articoli, libri e trasmissioni televisive a carattere divulgativo; è stranota a chiunque si sia occupato anche solo superficialmente della questione dei trapianti – ma a quanto pare, non a Rino Cammilleri né ai redattori del Giornale, né a qualcuno – il primo di una lunga serie, c’è da temere – che si è bevuto l’articolo di Cammilleri in una sola sorsata, senza batter ciglio e con palese soddisfazione.

Un caso limite

Nel settembre del 2005 un uomo, M.H., entrò in una clinica dell’Oregon, dove si praticava la procreazione assistita. Consegnò agli addetti un campione del suo seme, perché fosse usato per fecondare la sua compagna; ma poco dopo quelli tornarono, dicendo che il campione era caduto, e che bisognava ripetere la procedura.
Quello stesso giorno una donna, «Jane Doe», accompagnata dal marito, raggiunse quella stessa clinica, per ricevere il seme di un donatore anonimo. L’operazione fu effettuata senza problemi, ma poco dopo gli infermieri informarono la donna che si era verificato un errore increscioso: il seme non era quello giusto. A quanto pare, alla donna fu impedito di lasciare l’edificio fino a che non ebbe acconsentito ad assumere una pillola del giorno dopo. Alcuni mesi più tardi M.H. fu informato che il suo seme non era andato affatto perduto...
L’uomo ha adesso in corso due cause legali: una contro l’ospedale, per ottenere un risarcimento dei danni morali, l’altra per stabilire se è divenuto padre o no; Jane Doe e suo marito si oppongono a rivelare alcunché, in nome della privacy e, verosimilmente, per timore che M.H. possa cercare di ottenere la custodia del bambino, anche se non ammettono che un bambino sia nato (Elizabeth Suh e Ashbel S. Green, «Fertility clinic mix-up sparks legal tangle», The Oregonian, 22 settembre 2006).

È chiaro che qui si scontrano due diritti fondamentali: il diritto a non diventare padre senza volerlo, e quello alla privacy e alla non interferenza. Una soluzione equa è difficile. Ignoro quali siano le leggi dello Stato dell’Oregon, ma se dovessi decidere io, proporrei un compromesso lungo queste linee: M.H. dovrebbe essere informato dell’esistenza di un eventuale bambino, e ricevere – se lo desidera – rapporti periodici sulla sua vita; in cambio dovrebbe impegnarsi a rispettare la privacy di Jane Doe e di suo marito, senza cercare in alcun modo di rintracciarli e di conoscere il bambino, e rinunciando a ogni ulteriore diritto su quest’ultimo. La clinica dovrebbe pagare caramente il proprio errore e, soprattutto, se risultasse vera la storia della pillola del giorno dopo, il tentativo di costringere la donna ad abortire.

domenica 24 settembre 2006

Il dibattito sull’eutanasia (e sul caso Welby)

Disponibilità al confronto da parte del Cardinale Tonini, “ma in nessun caso si può ammettere l’eutanasia. Non si può uccidere una persona” (Cardinale Tonini: No all’eutanasia ma nessuna paura del confronto, Cani Sciolti, 24 settembre 2006).
E che confronto sarebbe?

Se io chiedo: voglio x, e qualcuno mi risponde: sono disposto a dialogarne, ma di x non se ne parla! cosa dovrei pensare? (Forse che non è il giusto interlocutore?)

sabato 23 settembre 2006

L’oscenità veneta

Il consiglio regionale del Veneto sta per varare una legge che consentirà l’accesso dei volontari del Movimento per la Vita nei consultori familiari e nei reparti di ginecologia, per dissuadere con la loro propaganda le donne che intendono abortire. Su questa autentica oscenità ha scritto ieri un articolo molto duro Carlo Flamigni («Processo alle donne», L’Unità, 22 settembre 2006):

Il Consiglio Regionale del Veneto sta per approvare una legge che si propone di regolamentare le iniziative mirate all’informazione sulle possibili alternative all’aborto. Nella relazione che precede i tre articoli si legge che «il dato più sconvolgente che emerge, sentendo l’esperienza di molte donne è la mancata informazione sia sui dati biologici dell’embrione o del feto sia sui possibili aiuti che essa può ottenere». Da chi? Da «moltissimi movimenti e associazioni che hanno come finalità l’aiuto alle mamme che … sono orientate verso l’interruzione della gravidanza».
A questi «moltissimi» movimenti e associazioni, l’articolo 2 della legge concede «di espletare il loro servizio di divulgazione e di informazione nei consultori familiari, nei reparti di ostetricia e ginecologia, nelle sale di aspetto e altre degli ospedali».
Se si trattasse in realtà di «moltissimi movimenti e associazioni» poveri noi, dovremmo immaginare resse tremende soprattutto nei reparti di ginecologia. In realtà si tratta del «Movimento per la vita», e solo di questo, una associazione della quale, sul piano dei risultati, non si può dire che bene, visto che afferma di aver risolto i problemi di un grande numero di donne, inducendole a cambiare idea e a decidere di non interrompere la gravidanza.
Brave persone, dunque. E per capire meglio quanto sono brave, sono andato sui loro siti, a leggere quanto il loro presidente, Carlo Casini, e i suoi collaboratori hanno scritto su questo argomento, come salvare tante vite e tante anime. Mi interessava naturalmente conoscere le loro motivazioni più sottili e capire cosa in realtà queste brave persone pensino delle donne che vogliono aiutare.
Sono capitato così in un sito che riporta, dopo un articolo di Casini, uno studio/proposta di uno psicologo che porta un titolo invitante e sommesso: «La sindrome del boia». E questo è in realtà quello che il Movimento per la vita pensa delle donne che hanno abortito: carnefici, boia, oltretutto consapevoli di esserlo. Valutazione forse non generosa e gentile, ma, ahimè, quanto concreta.
Dunque sono queste le persone che la regione Veneto vuol collocare all’interno delle strutture ospedaliere, alla faccia della “privacy” (a proposito, cosa ne dirà il garante?), per costituire una sorta di tribunale ecclesiastico di fronte al quale le donne che hanno deciso di abortire (sempre utilizzando un loro pieno diritto) dovranno sfilare. …
L’articolo cui fa riferimento Flamigni è: Sandro Gindro, «Conseguenze dell’aborto volontario: la sindrome del boia», in Atti del Convegno Nazionale «Aborto volontario: il domani di una scelta», 1998.

Aggiornamento: l’Assemblea regionale delle donne in difesa della 194 ha indetto una manifestazione con corteo per il 7 ottobre a Venezia (il corteo partirà alle 14.00 dalla stazione S. Lucia a Campo S. Margherita).
Per adesioni: assemblea194@libero.it.

Eugenia Roccella parla di Piergiorgio Welby

Sul Giornale di oggi Eugenia Roccella cerca di rispondere alla lettera drammatica e commovente che Piergiorgio Welby ha indirizzato al Presidente della Repubblica («Ma la morte non può essere una scelta», 23 settembre 2006, p. 17).
Confesso di essere un po’ riluttante a proporre argomentazioni logiche in un caso così tragico, dove commozione o silenzio sembrerebbero senza paragone più adeguati; ma il dibattito è necessario, e non ci si può tirare indietro.

È difficile parlare astrattamente di vita di fronte a un caso personale, di fronte al dolore vero di una persona vera, che chiede di finirla. Eppure incontrando un uomo che sta per suicidarsi buttandosi da un ponte, qualunque passante interverrebbe; cercherebbe di impedirglielo anche con la forza, e si sentirebbe in colpa se non lo facesse. Un aspirante suicida ha certamente ragioni gravissime e disperate per voler morire, e queste ragioni il passante non può nemmeno conoscerle e valutarle: il gesto di impedire la morte è istintivo, cieco e pregiudiziale. Perché, allora, di fronte a chi chiede di staccare la spina ci sentiamo diversamente disposti, rispetto a chi sta per spararsi un colpo di pistola alla tempia? Perché ci sembra che il sentimento di fratellanza, il rispetto per la comune qualità umana, ci debba portare ad aiutarlo ad andarsene piuttosto che a restare? Perché dare la morte con un atto medico ci sembra differente che dare una spinta all’uomo che sta per scavalcare di sua volontà la balaustra di un ponte?
Il motivo è appunto nel fatto che non possiamo conoscere e valutare le ragioni dell’uomo sulla balaustra; forse gravissime e disperate, ma forse invece passeggere e risolvibili: una depressione mal curata, una delusione d’amore. Prudenzialmente optiamo per impedire quel gesto irreparabile, ben sapendo che se le ragioni sono serie la disperazione, alla fine, avrà l’ultima parola. Ma nel caso di chi chiede l’eutanasia sappiamo tutto, e tutto possiamo valutare.
Eliminare dall’esistenza il male, il dolore, è impossibile. Nessun essere umano vuole l’infelicità, ma ogni volta che gli uomini hanno tentato di organizzare un mondo senza ingiustizie e senza imperfezioni, seguendo i grandi progetti utopici, hanno prodotto orribili distopie realizzate, società più crudeli e più ingiuste. Il male non si può cancellare, si può soltanto tentare di lenirlo, ripararlo, ed è questo il compito di chi sta vicino a una persona sofferente. Non c’è bisogno di credere in Dio per pensare questo, basta credere negli uomini.
Cancellare il dolore dal mondo è cosa ben diversa che cancellare un dolore ormai intollerabile da una singola esistenza. Pensare che un atto di pietà e di rispetto come questo possa produrre «orribili distopie», «società più crudeli e più ingiuste», significa veramente non credere negli uomini.
Introdurre nella nostra legislazione la morte assistita vuol dire creare una cultura dell’abbandono, della deresponsabilizzazione, in cui la sofferenza è affare privato che si deve affidare esclusivamente ai medici. Welby parla di «morte opportuna», ma chi deciderà, al di là del suo caso, quando la morte è opportuna? Se la morte è opportuna per lui che è perfettamente cosciente e ritiene la propria una vita senza qualità perché il suo corpo è martoriato dalla malattia, lo sarà a maggior ragione per chi ha una vita di minore «qualità»: chi non è cosciente, chi non ha mai goduto del vento tra i capelli o di una passeggiata notturna con un amico. L’idea di libera scelta è fragilissima, ambigua e oscillante, soggetta a mille interpretazioni. Anche Terri Schiavo, secondo i giudici americani, è morta per sua libera scelta, avendo espresso una volta davanti al marito il desiderio di non continuare a vivere se fosse rimasta in coma. Quanti, una volta messi di fronte alla concreta realtà della propria morte, cambiano idea e magari non sono più in grado di comunicarlo, e quanti, all’opposto, scelgono di morire solo perché depressi, bisognosi, privi del calore degli affetti?
Anche negare l’eutanasia, e volgersi dall’altra parte facendo finta di non vedere, può voler dire «creare una cultura dell’abbandono, della deresponsabilizzazione, in cui la sofferenza è affare privato che si deve affidare esclusivamente ai medici». Quanto a chi debba decidere se la nostra morte è opportuna, nessuno può farlo meglio di noi stessi: l’eutanasia non dipende certo dalla valutazione che un estraneo dà alla «qualità» della nostra vita, ma dalla nostra scelta cosciente. Il compito degli altri – dei medici, dei legislatori, dei tutori – è solo quello di appurare che la nostra scelta sia effettivamente libera, e non condizionata dall’ambiente familiare, dalla depressione, dalla solitudine. Pensare la libertà sempre come «fragilissima, ambigua e oscillante, soggetta a mille interpretazioni» equivale a negarla sempre. La stessa Roccella sembra consentire che la scelta di Welby sia in qualche modo giustificata, e questo dovrebbe dimostrare che distinguere è possibile, e che non è necessario invocare sempre l’eterno «piano scivoloso». Quanto al caso Schiavo e al testamento biologico, si tratta di un problema ben distinto, che non andrebbe confuso con quello di cui oggi si discute.
Di fronte a un caso personale si può rispondere, in realtà, solo sul piano personale: anch’io, come quasi tutti, ho avuto vicino il dolore, la morte, la disabilità grave, persone care precipitate nell’incoscienza del coma. Condividere il dolore degli altri è pesante, sarebbe più facile toglierlo dalla scena, ma attraversare e farsi carico della sofferenza propria e altrui dà qualità alla nostra vita, in modo diverso dalla felicità di sentire il vento tra i capelli; ma non in misura inferiore.
Il caso personale della Roccella mi sembra – e lo dico senza ironia – ben differente da quello di Welby. Farsi carico della sofferenza altrui sarà certo un’esperienza che arricchisce, ma sarebbe il caso di chiedersi prima cosa rappresenta quel dolore per chi lo prova in prima persona.

Derivation of human embryonic stem cells from developing and arrested embryos

In Stem Cells, 21 settembre 2006, di Xin Zhang, Petra Stojkovic, Stefan Przyborski, Michael Cooke, Lyle Armstrong, Majlinda Lako, Miodrag Stojkovic.

Abstract
Human embryonic stem cells (hESC) hold huge promise in modern regenerative medicine, drug discovery, and as a model for studying early human development. However, usage of embryos and derivation of hESC for research and potential medical application has resulted in polarised ethical debates since the process involves destruction of viable developing human embryos. Here we describe that not only developing embryos (morulae and blastocysts) of both good and poor quality but also arrested embryos could be used for the derivation of hESC. Analysis of arrested embryos demonstrated that these embryos express pluripotency marker genes such OCT4, NANOG and REX1. Derived hESC lines also expressed specific pluripotency markers (TRA-1-60, TRA-1-81, SSEA4, alkaline phosphatase, OCT4, NANOG, TERT and REX1) and differentiated under in vitro and in vivo conditions into derivates of all three germ layers. All the new lines including line derived from late arrested embryo have normal karyotype. These results demonstrate that arrested embryos are additional valuable resources to surplus and donated developing embryos and should be used to study early human development or derive pluripotent hESC.

Per l’intero articolo.

Giovanardi di nuovo in pista

Malvino dedica oggi un post, come sempre magistrale, a una nuova apparizione di Carlo Giovanardi in televisione, impegnato in un contraddittorio con Marco Pannella sul tema del Testamento biologico:

decidere della propria vita – soprattutto quando questa ne conserva solo una grottesca apparenza, che dire umana sarebbe sadismo malamente sublimato – decidere per sé è un diritto, o no?
Giovanardi non risponde, astrae. Dev’essere nella serata storta, però: astrae come una mosca in un bicchiere capovolto. Piergiorgio ed Eluana? Macché. La persona, la vita dal concepimento, la dignità fino all’ultimo rantolo, l’eutanasia dei vecchietti quando sono inutili, l’eugenetica della razza senza difetti, i pediatri nazi-olandesi – “e l’embrione?”, chiede provocatorio Pannella. Piergiorgio ed Eluana? Casi singoli, Giovanardi preferisce i massimi sistemi, quelli nei quali la vita è una definizione, una confezione lessicale, tanto più perfetta quanto più riesca a rendere indistinguibile Piergiorgio da Eluana, ed Eluana dal picchiatello che s’eccita con la roulette russa, e il picchiatello dal feto malformato, e il malformato dal diabetico, e il diabetico dall’ebreo della Shoah – ad libitum – tutto è vita, volendo. L’importante è non guardare in faccia a Piergiorgio ed Eluana.
Da leggere tutto.

venerdì 22 settembre 2006

Christopher Hitchens all’attacco di Ratzinger

È disponibile in rete la traduzione di un articolo di Christopher Hitchens (l’autore del famoso La posizione della missionaria), dedicato al discorso di Regensburg di Joseph Ratzinger: «L’attacco di Ratzinger» (Internazionale, n. 660, 21 settembre 2006; tit. or., «Papal Bull: Joseph Ratzinger’s latest offense», Slate, 18 settembre). Un piccolo assaggio:

I musulmani che protestano sono degli ingrati. In quasi tutti gli scontri tra l’islam e l’occidente o tra l’islam e Israele, il Vaticano ha preso una posizione equidistante oppure ha fatto da ventriloquo alle lamentele dei musulmani. Dall’inizio alla fine del suo discorso a Ratisbona, l’uomo che modestamente si considera il vicario di Cristo in Terra ha condotto un attacco implacabile contro l’idea che la ragione e la coscienza individuale si possano preferire alla fede.

Ecce Volontè

Ci mancava il nostro beniamino Volontè, ed ecco che prontamente ci tende una mano (Ecce Homo, Scimmia evoluta, Il Gazzettino, 22 settembre 2006).

Dunque l’uomo deriva dalla scimmia. Bella scoperta. Eppure, a questa “incredibile” conclusione sono costretti a giungere scienziati e industriali, banchieri e ministri riuniti in questi giorni a Venezia tutti attorno al tavolo di una “conferenza mondiale” pur di dare maggiore eco possibile a una new age all’italiana della teoria evolutiva della specie. (Quella tanto caro a Darwin): pur di convincere la gente che la vita è frutto del caso e che, in fin dei conti, tra noi e gli animali non c’è una grande differenza. Perché, come loro, nasciamo a muoriamo.

Però, che scoperta. Sembra quasi un remake di un recente spot televisivo di caffè, in cui lo scienziato-mago Merlino scopre, nel 2006, “la patata lessa”. Allo stesso modo, lo scienziato-mago Umberto Veronesi e altri apprendisti Harry Potter tireranno fuori dal cilindro mille teorie, elucubrazioni, alchimie per giustificare e diffondere a tutti i costi (badate ben: “costi”) l’idea di un’evoluzione legata esclusivamente al caso, a una natura involontaria, a un uomo senz’anima che, se esiste, lo deve solo a una fortuita coincidenza.

Molti, invece non credono in questa casualità. E senza bisogno di essere scienziati. Molti, cioè, credono in un intervento chiaro e lampante di Dio. Punti di vista. Tuttavia, non vorrei che, dietro questi punti di vista e tutte queste magie, si celassero non (per dirla come loro) “casualità”, ma obiettivi chiari e precisi. Aborto, eutanasia e clonazione umana rappresentano scenari orribili, d’accordo, ma al tempo stesso business da capogiro. Da introdurre subdolamente nel nostro Paese, nelle menti e nelle coscienze degli italiani. Magari con la scusa del “che c’importa, tanto siamo tutti animali...”.
Parole sante, Volontè, punti di vista. Non verità. Punti di vista. E sul fatto che siamo animali non capisco quali siano le sue perplessità, forse per Volontè animale è un insulto, come cornuto o imbecille.
La nostra animalità, poi, non implica assenza di anima (per usare le parole di Volontè: io direi assenza della mente). Perché fa tanta paura il caso? Bisognerebbe rivalutarlo, secondo me; senza il caso forse molti progetti umani sarebbero stati scartati...
E per finire, un monito al complotto delle multinazionali, interessate a clonare chi? Volontè?

giovedì 21 settembre 2006

Le ragioni di un discorso

Dopo innumerevoli analisi e discussioni, abbiamo ormai capito cosa intendesse dire il Papa nel suo discorso all’Università di Regensburg. Come sintetizza lucidamente Federico Punzi («Vogliamo interrogarci sulla visione dell’Islam in Benedetto XVI», JimMomo, 19 settembre 2006):

Il Papa argomenta dal punto di vista teologico l’impossibilità, per l’Islam, di liberarsi della concezione violenta del jihad, perché l’agire contro la ragione non è in contrasto con la natura del Dio islamico, che è «assolutamente trascendente … non è legato a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza». Dunque, la «diffusione della fede mediante la violenza» è un carattere intrinseco della «dottrina musulmana». Da una parte il Dio della Bibbia, del pensiero greco, dell’incontro tra fede e ragione, dall’altra il Dio del Corano, arbitrario e violento, perché lontano e separato dalla ragione. Una Riforma dell’Islam, sembra dire quindi Benedetto XVI – che non fa cenno nel testo ai periodi in cui l’Islam, come ricordato da Mohamed VI, ha conosciuto la categoria della ragione – è molto improbabile a causa della intrinseca irrazionalità del Dio dei musulmani.
È da notare come l’interpretazione di Punzi non si basi solamente sull’esegesi del discorso papale, ma anche su precedenti circostanze (in particolare le dichiarazioni di Joseph Fessio: vd. «Visioni contrapposte dell’Islam. Ratzinger prepara la Chiesa a un nuovo Medio Evo», JimMomo, 13 settembre).
Rimane tuttavia aperta la domanda sul perché il Papa abbia sentito la necessità di fare proprio quelle affermazioni, che corrisponderanno pure al suo pensiero, ma che comportano un costo non indifferente: l’abbandono di quella sorta di equidistanza tra Occidente (inteso soprattutto nel senso di Occidente atlantico) ed Islam che era stata la prudente politica di Giovanni Paolo II, desideroso di sottrarre le Chiese orientali – ma anche la Chiesa in generale – al pericolo di un’identificazione con le politiche mediorientali della Casa Bianca del dopo Guerra Fredda, e di cercare intese parziali con i musulmani sul tema della resistenza al secolarismo globalizzato.
Le reazioni, è vero, sono sicuramente andate al di là di ciò che Ratzinger si attendeva, a causa di un meccanismo mediatico prevedibile ma evidentemente non previsto; ma l’ormai famosa citazione dell’Imperatore Manuele II Paleologo era più ambigua di quanto adesso si voglia far credere, come Angelita dei Fantastici quattro filologicamente dimostra nella risposta a un commento sul suo blog:
Io noto:
1) Che intanto il paragrafo inizia con un’accusa di ipocrisia a Maometto.
2) Che il papa sembra voler sottolineare che il vero Islam non è quello della sura 2 (“nessuna costrizione nella fede”), ma quello delle disposizioni successive del Corano sulla jihad.
3) Che il papa sembra sposare complessivamente il discorso di Paleologo. Si suppone quindi che sposi anche la citazione “Mostrami ciò che Maometto...”, salva indicazione contraria.
4) “Brusco” non è un’indicazione contraria, perché è semmai riferito al modo in cui Paleologo pone in modo diretto “la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere” (formula di Ratzinger, che pare sottolineare che quella citazione non l’ha scelta a caso).
Ironicamente, mentre il Papa si trova ormai appaiato nell’immaginazione delle folle islamiche a George W. Bush, il Presidente americano ha tutti i motivi per non essere contento di questa nuova situazione. Per l’ideologia neocon, utilizzata anche se non adottata dalla Casa Bianca, il mondo islamico è riformabile in senso democratico e liberale, mentre il jihadismo e il fondamentalismo che lo anima sono distorsioni di una religione sostanzialmente pacifica. Solo così è giustificabile dinanzi all’opinione pubblica interna ed internazionale l’occupazione a lungo termine dell’Iraq, non certo con le mere esigenze geopolitiche di controllo di un’area strategica, e men che meno con gli appetiti vivaci dei contractors del Pentagono. Se l’Islam fosse stato presentato come irriformabile, una volta chiuso il dossier delle inesistenti armi di distruzione di massa si sarebbe dovuto procedere a un rapido disimpegno, lasciando i «barbari» a scannarsi fra di loro; non è da escludersi, d’altro canto, quando si ristabilirà il contatto con la realtà di un’occupazione gestita in modo demenziale e di un esercito portato sull’orlo dell’esaurimento, che i neocon cadano dalle grazie della Casa Bianca (come già hanno cominciato a fare), e vengano sostituiti da qualcuno opportunamente pessimista sulle sorti della rivoluzione democratica nel Dar al-Islam, pronto a giustificare ‘razionalmente’ l’inevitabile ritiro.

Nel nostro paese il discorso di Ratzinger ha ricevuto accoglienze assai più calorose: l’Italia del resto non ha la forza di perseguire autonomamente politiche mediorientali fondate sulla potenza militare, e comunque gli interessi in gioco sono decisamente più modesti.
Svanita l’illusione che l’Unto del Signore moltiplicasse pani e pesci, la Destra si è trovata ad affrontare la contraddizione tra le due anime principali che la compongono: le categorie privilegiate, capaci con l’acquiescenza dei governi amici di determinare il proprio reddito e di evadere l’imposizione fiscale, e la piccola borghesia a reddito fisso, integrato una volta con gli interessi sul debito pubblico, ma compresso adesso dall’adesione alla moneta unica. La soluzione che alcuni hanno voluto dare al dilemma è la più classica, la più onorata dal tempo: il ricorso alla paura del nemico. Una volta trovato l’avversario adatto nel terrorismo jihadista, bastava procedere a qualche adattamento cosmetico: ed ecco l’Occidente odiato per quello che è, non per quello che fa – avremmo altrimenti una possibile soluzione al conflitto (fin qui si segue ancora l’esempio americano, cui Osama Bin Laden rispondeva con un certo qual truce umorismo: «This is contrary to Bush’s claim that we hate freedom. Let him tell us why we did not strike Sweden, for example»). Ma anche all’Occidente vanno cambiati i connotati: non più Illuminismo e laicità, ma Cristianesimo – si sa, lo spirito critico non giova ai fuochisti della guerra, e pazienza se i valori universali della ragione e del pluralismo sono gli unici con una chance di conquistare gli altri continenti (i neocon avevano azzeccato la strategia, in fondo, anche se hanno fallito completamente nella tattica).
La frenesia identitaria rende decisamente più adatti all’odio: basta un giro per la Rete, ribollente di ardori guerreschi e di paranoia, dal direttore di giornale che ripete guerra, guerra, guerra, giù giù fino al misero clerico-fascista che farnetica «Possa Maria dare un segno definitivo della morte dell’Islam». La Sinistra, con la consueta (mancanza di) lucidità, alimenta involontariamente i falò col suo multiculturalismo, persa dietro al sogno inconfessato di sostituire la svanita classe operaia con una nuova corposa minoranza di oppressi da redimere.

È possibile che il Papa pensi di trarre beneficio da questi umori, e che s’illuda che dal Cristianismo possa prendere nuovo alimento il Cristianesimo? Forse sì, ma la Chiesa di oggi è troppo a disagio nella manutenzione dell’odio: lo testimoniano le precisazioni impacciate di Ratzinger, che se non sono scuse sono comunque mezze marce indietro.
Se vedo bene, la strategia vaticana ha un obiettivo più circoscritto: impedire la costituzione di vaste minoranze islamiche in Europa, sia sotto forma di immigrati, sia soprattutto sotto forma di nuovi membri dell’Unione: non è un caso, credo, che la Turchia sia il paese che ha reagito più duramente al discorso di Regensburg. La Chiesa non ha rinunciato alla sua aspirazione a vedere ‘riconosciute’ le cosiddette radici cristiane dell’Europa, e a imporre per questa via i propri valori e le proprie idiosincrasie alla vita civile del continente. Questo disegno riceverebbe un colpo mortale da una presenza di una fetta cospicua di cittadini europei religiosamente non assimilabili, che a quelle radici si sentirebbero estranei.

Quale dev’essere il comportamento di laici e liberali (se ne restano ancora di veri: quelli falsi sono ormai moltitudine) di fronte a questi avvenimenti? Da un lato è necessario difendere il diritto alla libertà di critica, da cui le religioni non sono esentate, e che vale per il Papa come per l’ultimo dei vignettisti danesi; dall’altro è necessario dissociarsi dalle idee e dagli obiettivi di Ratzinger. Solo Stati laici, e quindi perfettamente neutrali in materia di religione, potranno sperare di accogliere la Turchia nell’Unione, esempio prezioso per gli altri paesi islamici, in attesa che l’esaurimento delle risorse petrolifere interrompa nella regione il circolo vizioso di dittature, arretratezza e sedizione islamista, e di accogliere civilmente, integrare e assimilare gli immigrati musulmani (che continueranno ad arrivare in ogni caso, anche con tutti gli sforzi per regolarne i flussi). Senza dimenticare, però, che l’assimilazione si gioca soprattutto sul terreno economico: se negli Stati Uniti il melting pot funziona anche nei confronti dei musulmani, non è grazie alla più recente versione del pledge of alliance («one Nation under God»), come alcuni teocon vorrebbero farci credere, ma più modestamente grazie al vecchio e ancora relativamente affidabile American dream: fare i soldi.

Lettera aperta di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Da Piergiorgio Welby, Co-Presidente dell’Associazione Luca Coscioni

Caro Presidente,

scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.

Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.

La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.

L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.

Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.

Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.

Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.

Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.

Piergiorgio Welby

Qui il video.

mercoledì 20 settembre 2006

VOGLIO L’EUTANASIA

Domani giovedì 21 settembre 2006 alle ore 11.00 alla Sala stampa della Camera dei Deputati, via della Missione, 4

Conferenza stampa

VOGLIO L’EUTANASIA

PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DI PIERO WELBY (Co-Presidente dell’Associazione Luca Coscioni) MALATO DI DISTROFIA MUSCOLARE PROGRESSIVA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO

martedì 19 settembre 2006

Un’immagine vale più di cento parole


© 2006 Mauro Biani.

La vita naturale

Da un post di oggi del Calibano:

Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.

Piergiorgio Welby

1 solo embrione impiantato

WOMEN having fertility treatment may soon have just one embryo implanted, in an attempt to reduce costly twin births.
Couples having IVF are currently limited to two embryos being transferred at a time in women aged under 40, or three for older patients.
But the Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA) is to launch a consultation on transferring a single embryo per cycle of treatment. The authority will receive a report, chaired by Professor Peter Braude, next month before debating the issue.
The report is expected to highlight the costs and complications to both mother and baby associated with twin births.
But patient groups said that if twin births were to be prevented, more funding needed to be made available so that women could have more NHS cycles of IVF.
The number of twins born has doubled since IVF began in the late 1970s. About one in four sets of twins in the UK is now the result of fertility treatment.
Professor Siladitya Bhattacharya, a fertility expert at Aberdeen University, said that some clinics in Scotland were already using just single-embryo transfers in patients.
He said that in many young women who were “twin prone”, transferring just one embryo did not reduce the success rate.
“We do need to reduce twin births, not just because of the risks to the babies but also to the mothers having Caesareans. Twins are five times more likely to suffer cerebral palsy and 50 per cent are born prematurely. There are also the implications for NHS resources.”
Dr Bhattacharya said a shortage of special-care beds for these babies could mean that one was cared for in Aberdeen while the other was sent to Newcastle.
John Paul Maytum, from the HFEA, said it was waiting to see the full report from the expert group before making any decisions on how it could reduce multiple births.
But he said the issue needed to be dealt with due to the high risk of complications and the “small fortune” twin births were costing the NHS.
“We need to come up with something that is workable,” Mr Maytum said.
“There is a lot of anxiety among patients about this, with the belief that if you have just one embryo, there is less chance of success and you will have to go through it again.”
Sheena Young, of Infertility Network UK in Scotland, agreed that, in future, twin births did need to be reduced. She said, however, this would mean it was even more important that funding was put into the NHS provision of IVF.
“The money needs to be there so that couples can have three cycles on the NHS for their best chance of success,” she said. “If that is not there, they will not support single-embryo transfers.”
She said that while NHS funding of IVF was better in Scotland than the rest of the UK, there were still regional variations.
In Grampian, for example, there is a waiting list of four-and-a-half years for treatment. And while Lanarkshire patients can have three NHS cycles, in Glasgow they are limited to two.
IVF: Women facing new NHS limits of one embryo, Scotsman, 18 settembre 2006.

Così invece la legge 40: Articolo 14, 2: Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre.

Senza distinzione di età o di corporatura. Come il 6 politico...

lunedì 18 settembre 2006

Nessuno dovrebbe ritrovarsi in una situazione come quella di David March

David March, 57 anni, era tornato a casa per dare da mangiare alla moglie Gillian, affetta da sclerosi multipla, ma l’ha trovata con un sacchetto di plastica infilato sulla testa. Allora l’uomo, un giardiniere, ha prontamente rilegato il filo attorno al sacchetto e poi ha stretto la mano della moglie fino al suo trapasso.
La signora March, da anni in carrozzella ed incontinente, aveva provato già alcune volte a togliersi la vita. Mentre ogni giorno le sue condizioni di salute peggioravano, la donna accusava il marito di non lasciarla morire in pace. La signora March, 59 anni, aveva infatti chiesto che non fosse fatto alcun tentativo di rianimazione qualora fosse stata trovata incosciente. Ma così non era stato in almeno due occasioni.
L’ultima volta il marito l’aveva trovata mentre tentava di suicidarsi il 19 settembre dello scorso anno. L’uomo ha stretto la corda e poi ha chiamato l’ambulanza. I sanitari hanno trovato la signora esanime sulla propria carrozzella nel soggiorno.
Due giorni fa, l’uomo, agli arresti, ha ammesso in tribunale di aver aiutato la moglie ad uccidersi.
Il procuratore aveva fatto arrestare March per omicidio “perché, anche se lei aveva comunque tentato di togliersi la vita, le azioni dell’uomo potevano aver causato la morte”.
Ma durante l’ultima udienza, il procuratore ha dato ragione alla difesa, ammettendo la versione dell’imputato. “Lei era sempre viva quando lui è rientrato a casa e, almeno per quanto concerne le prove mediche, ha riannodato la corda con cui la donna si era legata le mani dietro la schiena”, e non quella del sacchetto.
L’uomo è stato quindi liberato ed è in attesa della sentenza, che giungerà il prossimo 16 ottobre.

La coppia era sposata dal 1979. La signora March lavorava come assistente legale fino al 1984, quando le è stata diagnosticata la sclerosi multipla. Il marito ha detto che la moglie “urlava e gridava” contro di lui perché non l’aveva lasciata morire durante i suoi falliti tentativi di suicidio. “Io l’amavo con tutto il cuore e avrei fatto qualunque cosa per lei. Vivere era difficile”.

Un portavoce di Dignity in Dying, l’associazione per la legalizzazione del suicidio assistito, ha così commentato la vicenda: “Nessuno dovrebbe ritrovarsi in una situazione come quella di David March. Tu devi scegliere fra la tua coscienza e la legge, e quando devi poter piangere la tua perdita vieni arrestato e partono azioni legali. Una legge sul suicidio assistito porterebbe questa pratica alla luce del sole, la regolamenterebbe e farebbe in modo che i desideri di persone come Gillian March siano rispettati, lasciando loro il controllo della situazione”.
Jeremy Purvis, il parlamentare liberaldemocrartico che ha presentato una proposta di legge per la legalizzazione del “mercy killing”, è convinto che in Scozia ci sia un largo consenso per una revisione della legge in materia. “Questo argomento tocca la gran parte delle famiglie. La legge non permette alle persone di avere il controllo nelle fasi finali delle proprie vite”.
Lo scorso maggio una proposta di legge sul suicidio assistito era stata bocciata dalla Camera dei Lords con 148 voti a 100, nonostante l’opinione pubblica inglese fosse favorevole alla legalizzazione di questa pratica.
Ho aiutato mia moglie malata a suicidarsi, Vivere & Morire, 16 settembre 2006.

domenica 17 settembre 2006

Negli Usa le staminali costano il doppio

Su blog.bioethics.net di qualche giorno fa Sam Berger ha messo in evidenza le conseguenze delle restrizioni imposte dall’amministrazione Bush alla ricerca sulle cellule staminali embrionali («The Hidden Cost of Our Stem Cell Policy», 8 settembre 2006). Com’è noto, mentre i singoli stati e i privati possono finanziare questi studi senza restrizioni, non è possibile richiedere fondi federali per ricerche che impieghino nuove linee di staminali embrionali; inoltre, cosa meno nota, i ricercatori non possono neppure impiegare a questo scopo strumenti e laboratori acquistati con denaro federale. Ciò porta a conseguenze paradossali, come la necessità di comprare doppioni di apparecchiature già esistenti, e di creare una costosa burocrazia per controllare che i vari fondi siano spesi senza violare la normativa. Il rallentamento della ricerca si accompagna così allo spreco di denaro pubblico.

Natascha Kampusch: settimana bianca con criminale

Qualche giorno fa avevo scritto un articolo su Natascha Kampusch (che riporto di seguito) manifestando qualche perplessità sulla vicenda. In questi ultimi giorni la notizia della settimana bianca aggiunge altri dubbi, per usare un eufemismo.
Forse ci vorrebbe Gil Grissom per arrivare alla verità...

Troppi lati oscuri nella storia di Natascha, 8 settembre, Il Giornale di Sardegna
Cercando su Google “Natascha Kampusch” si ottengono 3.780.000 risultati. Per fare un confronto: se ne ottengono 12.000.000 per Charles Darwin, 5.240.000 per Silvio Berlusconi e 2.270.000 per Francesco Totti.
La ragazza rapita 10 anni fa e vissuta in un garage è una celebrità e non ha bisogno di presentazioni.
Sono però molti i punti oscuri di una vicenda al contempo straziante e grottesca. Non solo nella ricostruzione della modalità e delle ragioni del rapimento, dei lunghi anni trascorsi e della fuga. I punti oscuri emergono prepotentemente soprattutto dal racconto e dal comportamento di Natascha. Dalla sua proprietà di linguaggio e dal suo apparente equilibrio emotivo, inconsueto per una diciottenne, e ancor di più per una giovane donna che ha passato dieci anni in un isolamento affettivo e cognitivo quasi totali. Natascha ha raccontato di essere riuscita a farsi regalare una radio e a farsi portare giornali e riviste. S’ipotizza che il suo carceriere le abbia dato alcune lezioni: ma il suo carceriere, Wolfgang Priklopil, era un tecnico elettronico e non un pedagogo: il risultato è davvero sorprendente!
La ricostruzione della prigionia è inquietante: il perenne rumore di un ventilatore, l’angusto perimetro di un sottoscala, la consapevolezza che fuori nessuno sapesse nulla di lei e che addirittura la pensassero morta. Picchiare ai muri della sua prigione con bottiglie e calci non ha richiamato l’attenzione di nessuno. Nessuno l’ha riconosciuta per strada, durante le passeggiate insieme al suo carceriere.
Soltanto dopo 6 mesi la ragazza è salita in casa per lavarsi. Ricorda la pulizia dell’appartamento e i cibi caldi preparati dalla madre di Priklopil. E aggiunge “avevano un buon rapporto, si volevano bene”. Non si potrà, se la testimonianza di Natascha è attendibile, attribuire il gesto del criminale (come lei lo chiama) al cattivo rapporto con la madre – viene da pensare con una punta di sarcasmo.
Natascha racconta di avere sempre pensato a come fuggire. A trattenerla è stata la minaccia di Priklopil di fare una strage se lei se ne fosse andata. Addirittura a frenarla dal proposito della fuga c’era il pensiero delle conseguenze sul suo rapitore: “pensavo a sua madre, ai vicini di casa. Non mi piaceva l’idea di far scoprire la faccia oscura di un uomo che avevano sempre considerato una brava persona. [La madre] mi fa pena: ha perso non solo il figlio, ma anche la fede in suo figlio. Sapevo che fuggendo l’avrei ucciso. Mi aveva sempre detto che si sarebbe ammazzato se fossi scappata. In pratica, con la mia fuga ho trasformato in assassini sia l’amico che gli ha dato un passaggio per la stazione, sia il conducente del treno che l’ha investito”.
È solo colpa della Sindrome di Stoccolma se il giudizio morale investe due ignari cittadini e non il suo carnefice?

Anestesia per i donatori di organi

Una riprova che non bisogna avere pregiudizi ce la offre Vinoemirra, con cui abbiamo avuto in passato qualche, uhm, scambio animato di opinioni, e che tra una foto di Oriana e un apologo pro-Ratzinger riesce tuttavia ad infilare un post molto ragionevole («Antidoti», 16 settembre 2006). L’autore ci spiega perché si pratichi l’anestesia ai pazienti in morte cerebrale donatori di organi, in risposta ai dubbi dell’arciconservatore Rino Camilleri.

Welcome George!

George, il programma che impara a parlare, Il Corriere della Sera, 16 settembre 2006.

sabato 16 settembre 2006

Evoluzionismo: Angiolo Bandinelli, Andrew Parker e l’entusiasmo

Non basta ammettere con candore la propria ignoranza (“Perfetto ignorante in materia di biologia e di teorie evoluzioniste”, per usare le parole di Bandinelli) riguardo a x per poi sbandierare il proprio parere gonfiato da asserzione che aspira alla credibilità. Proprio come non basta chiedere scusa mentre si sta picchiando qualcuno. Se sei ignorante, perché non rinunciare ad esprimere il proprio (ignorante) punto di vista? Si badi, ogni parere può legittimamente essere esposto, ma la questione è un’altra: l’investitura di verità che gli si attribuisce.

Il pretesto è un articolo di Sandro Modeo (L’evoluzione spiegata dai fossili, Il Corriere della Sera, 6 settembre 2006) a proposito di un In un batter d’occhio di Andrew Parker, recensione piuttosto stringata e non particolarmente appassionante.

La prima parte dell’articolo di Bandinelli (Scimpanzè pelosi, Il Foglio, 14 settembre 2006) è una ricostruzione, o tentata tale, delle idee di Parker, sulla base dell’articolo di Modeo (“mi affido senz’altro alle due svelte e dotte colonnine”). Non sarebbe meglio andare alla fonte invece di arrancare su informazioni di seconda mano?
La seconda parte è un campo minato.

L’idea di una scienza che mescola insieme protocolli sperimentali e descrizioni atte a provocare, come ancora si esprime Modeo, “shock”, mi convince poco. Tra gli shock benefici, anzi “salutari” per la scienza (visti i tempi tristi che essa vive a causa del “revival creazionista” e di un “antiscientismo duro” oggi particolarmente aggressivi) Modeo invoca un po’ rabbiosamente “il dissolvimento della nostra vanità antropocentrica e di tanti nostri deliri metafisici”.
Bandinelli non ci spiega perché lo shock provocato dalle descrizioni di Parker lo convinca poco. E non sembra che sia l’effetto a giustificare il suo giudizio, perché in molte occasioni la scienza (e a ragione) provoca shock: anche di fronte ad un esperimento la reazione più consona può essere lo shock, o di fronte alle numerose inebrianti scoperte scientifiche. E allora? Che sia il linguaggio tropo colorito a lasciare perplesso Bandinelli? Eppure la scienza si esprime per metafore, e questo è al contempo scioccante e semplice. Ebbene? Che lo shock che scardina antropocentrismo e metafisica sia benefico è fuori discussione (o sì?) – e Modeo sembra ironico e non rabbioso nel ricordare il provvidenziale dissolvimento.
Ma veniamo alle ragioni di Bandinelli:
A questo punto, mi permetto di osservare che la “magnificenza organica” verso la quale Parker richiama la nostra attenzione è espressione concepibile solo in una visione antropocentrica e metafisica dell’universo. Credo sia corretto sostenere che l’universo di per sé non ha nulla di “magnificente”, essendo esso semplicemente quel che è nei suoi dati chimico-fisici rilevabili sperimentalmente.
È decisamente troppo richiamare la polemica tra costruttivisti e realisti; se può andare che la magnificenza sia legata alla percezione e al giudizio umani, questo non significa che la necessità della presenza di un uomo (o della specie Homo etc.) per attribuire qualità o per percepire soggettivamente la magnificenza implichi una visione antropocentrica e metafisica. C’è bisogno di una mente che percepisce la bellezza (va bene), ma questa mente può essere detronizzata dal centro dell’universo senza insinuare contraddizione alcuna.
È un po’ rischioso strizzare l’occhio a Tolomeo, e dimenticare che la rivoluzione copernicana non ci ha privato di magnificenza, ma ci ha soltanto tolto una delle bende che ci accecavano.
E prosegue Bandinelli: “L’espressione entusiasta dello scienziato fa il paio con quella, cara ai fautori della creazione intelligente, che assume la “bellezza” dell’universo a ulteriore testimonianza dell’intervento attivo del creatore e del suo cervellone”. Si grida e si piange per gioia e per dolore: il fatto che sia lo scienziato che i creazionisti manifestino entusiasmo non li avvicina più di quanto il grido di un condannato a morte e il grido di uno che ha appena vinto alla lotteria riesca a rendere simili le esperienze e i protagonisti.
E per concludere:
Mi sento di condividere pienamente l’entusiasmo sia dello scienziato che dei creazionisti. Le loro sono poetiche espressioni dello stupore infinito che coglie il dotto e l’ignorante, l’ateo e il creazionista di fronte allo spettacolo dell’universo. Questo stupore infinito, questo entusiasmo che sempre fecondamente si rinnova, e rinnova i parametri della cultura, è faccenda propria ed esclusiva dell’uomo, come mise definitivamente a fuoco, se non erro, Kant. Se l’uomo non provasse stupore ed entusiasmo, se non accendesse miti e affabulazioni attorno al mondo e alla sua misteriosa bellezza, beh, non sarebbe uomo ma solamente uno scimpanzé sfornito di peli. Invece, con questa sua capacità di “nominare” le cose dando loro le qualità culturali che la natura ignora, egli esercita una facoltà creativa straordinaria, forse il vero complemento e fine dell’evoluzione dell’occhio iniziata con le alghe rosse della Columbia Britannica.
Certo, è legittimo essere entusiasti per le cose più bizzarre. Sarei più cauta nel trattare scienziati e creazionisti come fossero sullo stesso piano, tenuti a braccetto dall’entusiasmo. I creazionisti sono bugiardi, ingannatori – per quanto non necessariamente in cattiva fede, forse per stupidità, forse per ignoranza. Ma il giudizio non cambia e non deve cambiare: mentono.
Che lo stupore (e l’autocoscienza e tutto il resto) sia esclusiva proprietà dell’uomo, beh, mi permetto di dubitare. E così annientiamo un’altra consolatoria illusione: lo specismo.
Mi piace citare, invece che il povero Kant cui fischieranno le orecchie (e le cui affermazioni potrebbero essere verificate invece che riportate approssimativamente), Douglas N. Adams (lui ci teneva a sottolineare che le sue iniziali fossero DNA), brillante scrittore ma anche fine uomo di scienza, che nella sua geniale Guida galattica per gli autostoppisti così descrive il signor L. Prosser: “era, come si suol dire, soltanto umano. In altre parole era una forma di vita bipede a base carbonio, discendente da una scimmia”. Senza nulla togliere alla sua capacità di stupirsi, di entusiasmarsi e di denotare le cose.