domenica 14 gennaio 2007

La contraddizione di Erba

Ogni volta che l’orrore travolge la “normalità” prende avvio un percorso a ritroso alla ricerca di indizi, di spiegazioni, di segnali dell’imminenza della catastrofe.
Non basta conoscere i colpevoli. Perché c’è una domanda che la soluzione del caso non riesce a far tacere: sarebbe stato possibile prevederlo? Sarebbe stato possibile evitarlo? In agguato il sospetto terribile che potrebbe succedere a noi, che quei vicini “normali” potrebbero un giorno suonare alla nostra porta – non per chiedere un po’ di zucchero, ma per affondare un coltello nel nostro stomaco. Per vendetta o per capriccio. A meno che non sia possibile cogliere delle tracce, e in tal modo metterci in salvo.
Nel caso del massacro di Erba, si aggiunge l’inquietudine di una intima contraddizione, che percorre strade che sembrano scorrere come due parallele perfette.
Quella della premeditazione, dell’accumulo di astio, di rancore per ragioni stupide. Un piano delineato nei mesi per eliminare la fonte del fastidio: troppo rumore, troppe risate, troppa musica. Anche troppa sporcizia, forse. Un triciclo di un bambino che scorazzava su un prato che Rosa Bazzi avrebbe voluto come quelli delle soap opera. Di plastica. Un piano che è andato a buon fine soltanto al terzo tentativo di un progetto fantasticato e provato chissà quante volte nella fantasia allucinatoria dei due coniugi. Gli attrezzi che si portano in tasca quella sera dell’11 dicembre; un tappeto preparato per togliersi i vestiti sporchi e per nascondere gli attrezzi divenuti le armi del delitto; un trucco semplice per far uscire Raffaella dalla sicurezza della propria casa. E poi i giorni successivi al massacro, nei quali Rosa ed Olindo interpretano il ruolo dei vicini modello, collaborativi e ben pettinati. Partecipi dell’emozione e dello sdegno che gli omicidi hanno sollevato, soprattutto quello del piccolo Youssef: “come è possibile uccidere un bambino così piccolo?”. Le loro voci prive di emozioni si atteggiano a lamenti addolorati.
E poi c’è la strada dell’irruzione dell’orrore, della follia, della furia incontrollata che infierisce sui corpi di Raffaella, di Paola, di Youssef, di Valeria, e di Mario, sopravvissuto per caso. Calci, pugni, decine di colpi inferti. C’è sangue dovunque, ma l’orrore non si ferma, anzi sembra alimentarsi di se stesso. Nemmeno il bimbo incrina quell’odio gelido, ma ne viene travolto. Le grida delle vittime incitano i carnefici. E poi finalmente il silenzio di morte li appaga: non ci sarà più alcun rumore, né pianti infantili, né musica straniera a turbare la vita ordinata dei coniugi Romano.
Queste due strade si sono intersecate e hanno innescato una lucida furia omicida: una esecuzione al contempo calcolata e pervasa dalla follia.

(Oggi su E Polis, con il titolo Erba, là dove l’orrore si alimenta da solo.)

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