Stefano Rodotà, Su Welby l’occasione mancata dai giudici, la Repubblica, 18 dicembre 2006.
È sconcertante, ai limiti quasi della denegata giustizia, la decisione con la quale il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità. La palla è stata rilanciata nel campo della politica.
Ma i tempi della politica non sono quelli della vita. Dichiarando inammissibile quella richiesta, il giudice non ha voluto seguire la via pianamente indicata dal parere della Procura romana ed ha usato un argomento, appunto quello della inammissibilità, che comincia a ricorrere in maniera preoccupante nelle decisioni che riguardano i diritti delle persone nelle materie in cui il loro modo di vivere si intreccia con le tecnologie. Lo aveva già fatto recentemente la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legge in materia di procreazione medicalmente assistita. E questo modo di argomentare segna un abbandono da parte della magistratura non di un ruolo di supplenza quando la politica è silenziosa o distratta, ma del suo proprio compito di essere il luogo istituzionale dove le nuove domande di diritti trovano immediate risposte sulla base dei principi già esistenti nel sistema giuridico.
Molte ricerche hanno mostrato come, nel tempo presente, siano appunto i giudici ad intervenire là dove l’innovazione scientifica e tecnologica offre nuove possibilità e fa nascere nuovi problemi. Si è così sostenuto che il diritto giurisprudenziale sia preferibile alla minuta regolamentazione legislativa. Quest’ultima è rigida, destinata quindi ad essere superata e ad entrare in conflitto con i nuovi dati di realtà, mentre l’intervento del giudice segue la vita in tutte le sue pieghe, è capace di adattare alle situazioni concrete i principi di base rinvenibili nelle costituzioni e nelle grandi leggi di principio. Nella materia della bioetica questa impostazione si rivela particolarmente importante e grazie ad essa, nei più diversi paesi, sono state affrontate e risolte questioni difficili. Il caso di Piergiorgio Welby, quale che sia il punto di vista dal quale lo si consideri, doveva essere risolto accogliendo la sua richiesta, perché così vogliono principi e regole ormai solidamente fondati nel nostro sistema giuridico.
Al centro del nostro sistema giuridico è la persona con la sua volontà, non più paziente sottoposto al volere del medico, ma soggetto morale nel senso più alto, al quale competono soprattutto le decisioni che riguardano i drammi dell’esistere. Lo riconosce anche l’ordinanza romana, quando ripercorre la storia non breve che ha portato a fondare esclusivamente sul consenso della persona interessata qualsiasi trattamento riguardante la salute, legittimando in primo luogo il rifiuto di cure. “Un diritto soggettivo perfetto”, come si legge nella stessa ordinanza. Che, però, subito dopo ritiene che quel diritto davvero perfetto non è, mancando le condizioni per la sua concreta tutela. Lasciamo da parte le molte considerazioni che potrebbero esser fatte su questo modo di argomentare, e vediamo quali sarebbero queste condizioni. Sostanzialmente due: la mancata specificazione di che cosa debba intendersi per accanimento terapeutico e la “indisponibilità del bene vita”. Ma questa conclusione è il risultato di un fraintendimento grave dei dati normativi e dell’effettivo significato del rifiuto di cure.
Nell’ordinanza, infatti, si stabilisce una relazione tra il “diritto del paziente ad ‘esigere’ e ‘pretendere’ che sia cessata l’attività medica di mantenimento in vita” ed una situazione di “mero accanimento terapeutico”. E qui la confusione concettuale è massima, poiché rifiuto di cure e accanimento terapeutico sono cose diverse, descrivono situazioni indipendenti l’una dall’altra. Non è vero che il rifiuto di cure sia ammissibile solo in presenza di un accanimento terapeutico. Tra i moltissimi casi, mi limito a ricordarne uno solo, di particolare evidenza: quello di una donna che, non ritenendo accettabile il vivere con una menomazione, ha rifiutato l’amputazione di una gamba in cancrena, ed è morta. Siamo di fronte all’opposto dell’accanimento terapeutico, poiché la cura le avrebbe salvato la vita. Questo dimostra che il rifiuto di cure deve essere rispettato in ogni caso, quando vi sia una esplicita manifestazione di volontà dell’interessato, esattamente quel che ha fatto Welby.
Si risolve così anche un altro problema, impropriamente sollevato dall’ordinanza, relativo al fatto che la vita di una persona dipenderebbe dalla valutazione soggettiva del medico, chiamato a decidere se vi sia o no accanimento terapeutico, mentre il medico non deve compiere alcuna valutazione discrezionale, ma limitarsi ad accertare quale sia la volontà della persona. Comunque sia, è infondata anche la tesi, sostenuta nell’ordinanza, secondo la quale non sarebbe possibile fondare una decisione giudiziaria sull’accanimento terapeutico, poiché questa nozione, come altri principi, sarebbe “incerta ed evanescente”. Ma il diritto è sempre più ricco di queste clausole generali, di questi concetti non specificatamente determinati, che sono finestre aperte su un mondo sempre più mutevole e che hanno la funzione di consentire l’adattamento della norma alla realtà senza bisogno di continui aggiustamenti legislativi. È storia lunga, che i tecnici del diritto dovrebbero ben conoscere, che riguarda ad esempio nozioni come “comune senso del pudore” o “buona fede”, non specificate nel dettaglio dal legislatore e che vivono proprio grazie al lavoro dei giudici, che ne precisano un contenuto che varia nel tempo e nei contesti.
E l’approssimazione culturale finisce con il travolgere persino il principio della dignità della persona di cui, secondo l’ordinanza, il giudice non potrebbe servirsi proprio per la sua indeterminatezza, mentre a questo principio fanno costante riferimento sentenze della Corte costituzionale e delle altre magistrature, coerentemente con il fatto che esso è ormai uno dei fondamenti delle nostre organizzazioni sociali, tanto da aprire la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. L’approssimazione continua quando si afferma apoditticamente che il bene della vita è indisponibile, mentre proprio il diritto al rifiuto di cure, ormai largamente e ripetutamente esercitato, dimostra che così non è. Se l’ordinanza avesse ripercorso correttamente l’itinerario costituzionale, sarebbero stati evitati errori e sgrammaticature. L’articolo 32 fornisce una linea nitida: la salute è diritto fondamentale dell’individuo, non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per legge, e mai la legge può violare “i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Poiché per salute deve intendersi “il benessere fisico, psichico e sociale” della persona (questa è la definizione dell’organizzazione mondiale della sanità, accolta nel nostro sistema), questo vuoi dire che il governo dell’intera vita è fondato sulle libere decisioni degli interessati. Poiché nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario, l’argomentazione dell’ordinanza deve essere rovesciata: la mancanza di una legge rende illegittimo il trattamento, non la richiesta di interromperlo. Poiché nulla può esser fatto che violi la dignità, “il rispetto della persona umana, questo vuol dire, soprattutto in situazioni estreme e drammatiche, che nessuno può imporre la prigionia della sofferenza”. L’ordinanza è una occasione mancata, e mi auguro che le sue molte storture possano essere corrette se i legali di Welby decideranno di impugnarla, anche per mettere un freno ad una regressione culturale. Ma fraintendimenti e rischi non si fermano qui.
Che cosa avverrà quando verrà reso noto il parere del Consiglio superiore di sanità, chiesto con una certa approssimazione, visto che a questo organismo non spetta la decisione su casi singoli? Se dirà che Welby non è oggetto di un accanimento terapeutico, e mi sembra difficile, non per questo escluderà la legittimità della richiesta di rifiuto di cure, dato che le questioni stanno su piani diversi, come ho già ricordato. Ma se riconoscerà l’accanimento terapeutico, scatterà l’articolo 14 del codice di deontologia e il medico sarà obbligato ad interrompere il trattamento, con tutte le ovvie cautele necessarie per evitare ulteriori e inutili sofferenze. Guardando ai compiti del legislatore, si insiste nel dire che problemi come questi saranno risolti dalla legge sul testamento biologico. Continuo ad essere sbalordito da questa ulteriore confusione, poiché quel tipo di documento riguarda la situazione del morente incapace di manifestare la propria volontà, mentre Piergiorgio Welby è lucidissimo e determinato nella scelta intorno al modo di porre fine alla sua vita.
Anche questa operazione di pulizia concettuale è indispensabile, per impedire che la già difficile discussione sul testamento biologico venga complicata dal caricare su di essa altre e improprie finalità. Mi è tornato alla memoria, in questi giorni, quel che nel 1970 Paolo VI scriveva al cardinale Villot, responsabile dei medici cattolici: «Pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico ad utilizzare tutte le tecniche della sopravvivenza che gli offre una scienza infaticabilmente creatrice (…). Il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare il più a lungo possibile, con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana». L’ordinanza romana avrebbe potuto mettere il buon diritto in sintonia con la vita, restituendole l’umanità. Non lo ha fatto. Ma non può interrompere un difficile cammino di incivilimento che porterà, anche in Italia, a poter pubblicare un sereno annuncio della morte di una persona come quello apparso il 6 dicembre sui giornali del Canton Ticino, dove il fratello dello scomparso ringraziava i medici che l’avevano “portato a una morte dolce e indolore come lui desiderava, senza nessun accanimento terapeutico”.
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