Anna Meldolesi, Nel caso Welby gli escamotage non funzionano, Il Riformista, 20 dicembre 2006.
La domanda a cui oggi dovrà rispondere il Consiglio superiore di sanità (Css) suona più o meno così: i trattamenti a cui è sottoposto Piergiorgio Welby rappresentano una forma di accanimento terapeutico? Il cuore porterebbe a dire di sì, ma l’interrogativo in realtà è mal posto. Un’eventuale risposta affermativa del Css, insomma, sarebbe solo una mezza vittoria. Da un lato potremmo rallegrarci perché alleggerirebbe la posizione di chi intende aiutare il copresidente dell’associazione Coscioni a mettere fine alle sue sofferenze. Dall’altro, però, non servirebbe a far maturare nel paese un dibattito sensato sulle decisioni di fine vita. E poiché quella di Welby è una battaglia civile oltre che personale, sarebbe importante vincerla senza ricorrere ad alcun escamotage, mantenendo dritta la barra dell’onestà intellettuale.
Le proposte avanzate negli ultimi giorni, invece, non hanno fatto che aumentare il tasso di confusione. Il bioeticista cattolico Francesco D’Agostino ha sostenuto che una soluzione compatibile con la legge italiana c’è: basta invertire le richieste di Welby. Invece di sedarlo per poi staccare il respiratore, si dovrebbe sospendere prima la ventilazione e poi procedere alla sedazione. Questa sequenza servirebbe a mettere in primo piano la rinuncia al trattamento non desiderato (la ventilazione), allontanando il sospetto che il medico che pratica la sedazione voglia favorire un processo che ha come finalità la morte del paziente. Nessuno però si sognerebbe mai di iniziare un intervento chirurgico senza fare prima l’anestesia. E sul piano umano viene naturale obiettare che, seppure dovessero passare solo pochi secondi tra le due azioni, Welby sarebbe caricato di una dose aggiuntiva di angoscia, perché sarebbe cosciente nel momento in cui viene meno il supporto respiratorio. Altrettanto incomprensibile, a un occhio laico, è la proposta di Giuseppe Casale, il medico palliativista che ha respinto la richiesta di Welby. Casale non se la sente di sedare Piergiorgio per prepararlo al distacco del ventilatore e avrebbe la comprensione di chiunque se si limitasse a dire che le sue convinzioni personali non gli consentono di rispettare la volontà del paziente. Ma va oltre e propone una procedura alternativa: procedere alla sedazione senza staccare il ventilatore, in modo che Welby muoia “naturalmente” di disidratazione perché essendo in stato di incoscienza non potrebbe assumere liquidi né alimentarsi. Questo ragionamento non tiene in alcun conto il fatto che la famiglia di Piergiorgio sarebbe costretta ad assistere a un’agonia destinata a protrarsi anche per dieci, quindici giorni. A un occhio laico, appare francamente crudele, perché allora Casale considera questo approccio eticamente preferibile? Il punto è che in questo modo non si tratterebbe di interrompere una terapia di sostegno vitale (la respirazione) e invece si deciderebbe di astenersi da un’altra (l’idratazione artificiale). Negli ultimi decenni tra i bioeticisti e i giuristi occidentali si è affermata la convinzione che non esistano differenze sostanziali tra interrompere un trattamento già avviato e astenersi dal cominciarlo. Ma tra i medici c’è chi vive in modo diverso queste due opzioni, per ragioni psicologiche o religiose. Le conseguenze normative di questo strabismo però possono essere paradossali, come insegna il caso di Israele. Qui il ministro della salute nel 2000 ha istituito un comitato sulle decisioni di fine vita, che due anni dopo ha proposto di tracciare un confine tra i trattamenti “continui” (come la ventilazione) che non andrebbero interrotti e i trattamenti “discreti” (cioè ciclici, come la dialisi) che potrebbero essere sospesi. Nel primo caso, secondo la prospettiva ebraica, ci sarebbe un’intromissione attiva del medico, mentre nel secondo caso ci si asterrebbe semplicemente dal fornire un nuovo ciclo di cure. Allo stesso tempo però si è deciso di trasformare la ventilazione in un trattamento “discreto”, grazie a un timer che tiene l’apparecchio in funzione solo per un intervallo prestabilito (diciamo una settimana). In questo modo il medico dovrebbe riattivare l’apparecchio di tanto in tanto, se questo è il desiderio del paziente, e non dovrebbe compiere alcun atto se quest’ultimo preferisce morire. Sempre che il timer funzioni a dovere.
La proposta di legge governativa che ne è scaturita è stata salutata da qualcuno come un’originale soluzione tecnica al conflitto tra valori religiosi e liberali. Ma è difficile allontanare il dubbio che quel timer sia un trucco e che questa bioetica da azzeccagarbugli abbia il respiro corto. Per questo ci auguriamo che il Css non segua l’esempio e non tenti di suddividere i trattamenti medici in categorie arbitrarie. Rodotà, Corbellini, Santosuosso, Neri, Defanti, Caporale – per citare solo chi ha scritto le sue riflessioni o le ha condivise con noi – hanno ragione a sostenere che non spetta a medici, politici o giudici stabilire se la ventilazione artificiale è una forma di accanimento terapeutico. Può esserlo o no a seconda dei casi, e comunque il malato ha il diritto di rinunciare anche a trattamenti che ad altri appaiono proporzionati. Il Consiglio superiore di sanità, dunque, farebbe bene a riformulare la domanda che gli è stata posta, chiarendo che l’accanimento terapeutico non si presta a definizioni oggettive. E magari ribadendo la centralità del consenso informato, come fa il disegno di legge appena presentato da sette senatori tra cui Ignazio Marino.
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