Welby, la sentenza dice altro, l’Unità, 18 dicembre 2006.
Se la grammatica della lingua italiana, e la logica, non sono cambiate, e rimangono valide soprattutto nella sfera del diritto che tutela le libertà personali, la sentenza del giudice sul ricorso di Welby non dice che Welby non può rifiutare il trattamento a cui è sottoposto. Dice soltanto, e forse non poteva dire altrimenti perché non viviamo purtroppo in un sistema giuridico di common law, che lei (giudice) non può obbligare il medico a compiere alcun intervento ovvero impedirgli di agire secondo “scienza e coscienza”, nel momento in cui la coscienza di Welby esce di scena. Ma dice che Welby ha un diritto assoluto di rifiutare il trattamento, e fa riferimento non solo alla Costituzione ma anche a sentenze della Cassazione le quali ribadiscono che il medico non può far niente senza il consenso del paziente. Non posso, dice il giudice, obbligare il medico a togliere il respiratore e a non rimetterlo a sua discrezione, perché mi manca un ordinamento esplicito a cui possa richiamarmi. Anzi se prendo in considerazione l’ordinamento nel suo complesso incontro una situazione contraddittoria. Hanno ragione i giuristi che si inalberano perché se quel giudice rispettasse la naturale gerarchia degli ordinamenti, la Costituzione dovrebbe prevalere sui Codici. Ma è vero che non esiste una legge che preveda il diritto di un cittadino italiano di ottenere un atto medico che si configura come sottrazione di un trattamento in corso. Di fatto i medici, in Italia, accettano il rifiuto del trattamento perché rischiano una denuncia per lesioni personali o violenza privata.
Nondimeno il giudice, nella penultima pagina della sentenza, dice che «non può parlarsi di tutela (del diritto di interruzione del trattamento) se poi quanto richiesto dal ricorrente deve sempre essere rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta vanga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie convinzioni etiche, religiose e professionali». E qui riporta gli improbabili argomentazioni del dottor Casale, che dovrebbe riflettere con la propria coscienza se non abbia di fatto ingannato Welby. Così come dovrebbe riflettere il Presidente dell’Ordine dei Medici, che all’indomani dell’azione di Welby ha tirato in ballo, improvvidamente, prima l’omicidio e poi l’eutanasia. E minacciato, quasi in stile corporativista, di perseguire ai sensi del codice deontologico chi si fosse prestato alla richiesta di Welby. Allora è una presa in giro l’articolo 32 del Codice di Deontologia Medica? Orbene, sempre se la logica vale ancora e se la dichiarazione di «inammissibilità dell’azione tutelare» viene sostenuta «attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito», un medico che valuti secondo un diverso giudizio clinico e una diversa, e più eticamente pertinente interpretazione dei suoi doveri (in particolare l’articolo 32 del codice deontologico) l’evoluzione della situazione, può agire nel senso richiesto da Welby. Quindi può fare quello che Welby chiede. Sarebbe importante se a questo punto qualche medico specialista fosse disposto ad aiutare Welby, perché è solo attraverso qualche azione che torni a valorizzare la relazione di fiducia tra paziente e medico che si possono ricostituire le condizioni per una efficace collaborazione tra queste due figure nella lotta quotidiana contro la sofferenza.
A mio modesto modo di vedere, questa sentenza non dice, quindi, cosa diversa da quanto detto da quella della Procura. Ovvero che non è possibile, in base all’ordinamento vigente, ordinare quello che Welby chiede al medico. Ma che Welby ha il diritto di rifiutare il trattamento e deve risolvere nel contesto della relazione terapeutica il problema. Forse, come giustamente diceva Francesco D’Agostino durante una trasmissione televisiva, potrebbe addirittura denunciare il medico per violenza privata se non gli toglie il respiratore e non lo seda. Lo stesso presidente onorario del CNB ha praticamente detto che esistono dei protocolli definiti di sedazione, che escludono qualsiasi possibile interpretazione dell’atto in senso eutanasico. Il giudice, poi, invita la politica a far luce, in senso giuridico sulla materia. E qui si mette a chiedere che vengano definiti per legge che cosa sono accanimento terapeutico o dignità della persona. Prospettiva che a quanto pare attrae molto anche la Ministra Turco. Attenzione! Deve essere chiaro che le eventuali indicazioni per dare un senso oggettivo all’accanimento terapeutico possono valere solo quando il paziente perde la coscienza, e a partire dalle sue direttive anticipate (testamento biologico). In stato di coscienza, capacità del paziente e con indicazioni scritte o riportate, solo a lui deve spettare la decisione finale se un trattamento è accanimento o meno. E quando la vita è – per lui, non in base a una legge dello Stato, altrimenti sì che torniamo a rischiare grosso – non più degna di essere prolungata.
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