martedì 5 dicembre 2006

Il fratello gemello di Piero Welby, ovvero pietà (o clandestinità?) sì, diritto no

Anna Meldolesi a conversazione con il presidente dell’ordine dei medici («Welby, come Wojtyla, ha qualcosa di religioso», Il Riformista, 5 dicembre 2006). Amedeo Bianco era un ottimo candidato allo stupidario eutanasia 17...

La battaglia personale e civile di Piergiorgio Welby si combatte anche sul piano semantico. Come dimostra la contrapposizione tra Rosy Bindi e Ignazio Marino, il significato che politici, medici, giudici vorranno dare alla parola eutanasia inciderà in modo decisivo sulla sorte del copresidente dell’associazione Luca Coscioni e di chi, eventualmente, vorrà aiutarlo a porre fine alle sue sofferenze. Se quella di Welby non è una richiesta di eutanasia ma il rifiuto di un inutile accanimento terapeutico – come sostiene il presidente della commissione Sanità del Senato – non ci sono ragioni per cui non debba essere accolta. Se è vero il contrario – come afferma il ministro della Famiglia – l’interruzione della respirazione artificiale si colloca al di fuori della legge italiana e della deontologia medica. Amedeo Bianco, presidente dell’Ordine dei medici, è schierato su quest’ultima posizione e gli abbiamo chiesto di spiegarci perché. Le sue argomentazioni sono inusuali: a suo avviso non è tanto l’intervento auspicato da Welby (il distacco del respiratore accompagnato da sedazione) né l’esito che ne conseguirebbe (la morte) a rendere la richiesta irricevibile. L’elemento decisivo sarebbe un altro. «La differenza tra rifiuto dell’accanimento terapeutico ed eutanasia sta nel percorso con cui si arriva alla decisione, nei valori che si testimoniano. Welby rivendica il diritto di scegliere come terminare la propria vita ed è proprio questo che caratterizza il suo caso in termini eutanasici » sostiene Bianco. Dunque conta poco il fatto che non si tratta di somministrare un’iniezione letale, ma di lasciare semplicemente che la malattia faccia il suo corso, attraverso l’insufficienza respiratoria che ne deriva. Sono le intenzioni politiche che richiamano l’eutanasia. E se di questo si tratta, va da sé che può realizzarsi solo attraverso un atto di disobbedienza civile. È opinione comune che Welby intraprendendo la sua battaglia abbia rinunciato alla strada più facile: quella di vivere il suo dramma privatamente e di staccare privatamente la spina come accade spesso, senza attirare l’attenzione di politici o magistrati. Ma non è questo che Bianco vuole dire. Provate a immaginare che Piergiorgio abbia un fratello gemello, ugualmente malato e senza speranza, ma senza grilli radicali per la testa. Per il presidente dell’Ordine dei medici, questo fratello di fantasia potrebbe arrivare a concordare con il suo medico la sospensione della respirazione artificiale, mentre Piergiorgio non può. La differenza non sta nel fatto che la morte del primo può passare inosservata, è piuttosto di ordine qualitativo. «In un caso – sostiene Bianco – parliamo di un legittimo percorso di “cura della morte” fatto di valori di dignità ed empatia tra medico e paziente, mentre nell’altro caso c’è la rivendicazione di un diritto alla morte». I valori in campo insomma sarebbero così diversi da concedere a uno ciò che viene negato all’altro. Bianco ci tiene a precisare il suo rispetto per Welby e aggiunge che le sue sofferenze non sono inutili: «Il mondo non è sordo né cieco». Non si definisce cattolico: «Sono un laico che crede in alcuni valori cattolici, ma non ne farei una questione di religione ». Sostiene che Welby ha preso una strada opposta a quella di Karol Wojtyla, che ha continuato ad affacciarsi alla finestra finché hanno potuto accompagnarcelo. «Ma in entrambi i casi c’è stata una scelta di testimonianza, di coraggio e sofferenza, mi azzarderei quasi a dire che tutti e due hanno qualcosa di religioso». Eppure quando il papa ha preferito rinunciare agli ultimi tentativi di cura si è parlato di un alto esempio di accettazione della morte, mentre la richiesta di Welby per alcuni suona come una bestemmia. Per definire l’interruzione dell’accanimento terapeutico, Bianco indica il depotenziamento delle terapie nella continua attenzione per il paziente. «Esiste una relazione inversamente proporzionale tra cura e care (tra prescrivere la terapia e farsi carico del malato, ndr)» dice. Per questo non accetta che si parli di eutanasia strisciante: «Significherebbe che la richiesta di Welby è di serie A mentre gli altri casi sono di serie B. Quella che per i radicali è eutanasia sommersa io la chiamo “progetto di cura della morte”. Ci sono centinaia, migliaia di Welby e i medici che se ne fanno carico fino all’ultimo meritano rispetto ». Ma come si fa a distinguere giuridicamente questi casi da quello di Piergiorgio, tanto più quando lo stato di salute, l’atto richiesto e l’esito sono i medesimi? Bianco risponde che «non si può fare una distinzione sul piano giuridico, e anzi credo che non possa essere un giudice a decidere». Eppure un intervento normativo sarebbe necessario, aggiunge. «La legge dovrebbe chiarire i profili di responsabilità. Oggi esiste una norma per cui non impedire che un evento avvenga equivale ad averlo commesso. Questo rende tutto difficile ». Il rappresentante dei medici puntualizza che rispondere negativamente alla richiesta di Welby non significa necessariamente essere «parrucconi o paternalisti » e rivendica di avere posizioni diverse dal Comitato nazionale di bioetica e dalla Santa Sede su alcune questioni scottanti. Secondo la bioetica cattolica, per esempio, l’alimentazione artificiale usata per tenere in vita i pazienti in stato vegetativo come Eluana Englaro non può essere sospesa, perché non rientrerebbe nel novero dei trattamenti medici. Proprio questo è uno degli ostacoli principali all’approvazione di una legge condivisa sul testamento biologico. Ma Bianco è convinto che la Peg (enterogastrostomia percutanea) sia un intervento di cui il paziente deve poter disporre. La revisione in corso del codice deontologico, però, non toccherà questo punto né le tematiche di fine vita in generale. Nella sua forma attuale sostiene che il medico deve attenersi alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona (art. 34). Condanna sia l’accanimento terapeutico (art. 14) che l’eutanasia (articolo 36) e si offre a interpretazioni contrastanti. «Ma posso affermare che la maggioranza dei medici non mette in discussione due principi» afferma Bianco. «Il primo è quello dell’autodeterminazione del paziente. Il secondo è che questa autodeterminazione non implica la possibilità di terminare la vita».

1 commento:

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