Potrei nascondere la mia sorpresa con citazioni seriose, tipo la fallacia del principio di autorità o la teoria del caos. Ma non servirebbe, il mio sbalordimento permane e mi costringe (volentieri, peraltro) a riconoscere che il direttore de la Padania, Gianluigi Paragone, ha scritto ieri a proposito di Welby un articolo che ha dell’incredibile (Perché non lasciare Welby al suo destino?, la Padania, 8 dicembre 2006). Sì, perché, a parte qualche scivolone, ha dimostrato molto più buon senso di quasi la totalità dei commentatori ed esperti (spesso presunti tali) sulla vicenda.
È drammatico esultare per tanto poco? Credo di sì, ma guardandosi intorno si cambia immediatamente idea.
Se Welby fosse mio fratello, mio padre... Cosa farei? Se mi chiedesse coscientemente di staccargli la spina, lo farei. E poi sarei disposto ad andare a processo, spiegando perché non sono un omicida, né un fratello o un figlio egoista irriconoscente. Già, perché il rischio di abusare di certe soluzioni finali c’è eccome. Lo vediamo con l’aborto divenuto ormai una scorciatoia. So che starei male, dopo averlo fatto, ma non mi sentirei in colpa.Non è del tutto chiaro di cosa o per cosa l’aborto sia diventato una scorciatoia. In ogni modo, almeno ci ha risparmiato l’appello alla sacralità della vita e simili.
Nel resto del suo articolo spiccano due passaggi fondamentali: il giudizio di erroneità della domanda “Chi siamo noi per togliere la vita a un uomo o a una donna?” e la necessità che la politica dia una risposta a Welby.
Faccio subito ammenda: “staccare la spina” è una perifrasi scorretta nella forma e codarda nella sostanza. L’ho usata a torto, cadendo nell’errore comune. Dire “staccare la spina” significa respingere il concetto di morte, avere paura persino di nominarla. Significa aver paura di guardare in faccia la dolorosa realtà. Welby vuole morire perché ritiene che sul suo corpo si stiano accanendo oltre il tollerabile. È cosciente. Di più, è pienamente cosciente nonostante il dolore, un dolore che per quanto lancinante non scalfisce la lucidità delle sue scelte. Se ho capito bene la sua volontà, non chiede di morire perché ha sofferto oltre il tollerabile; ritiene che il suo corpo sia incastrato dentro la tecnica. E che di naturale non abbia più nulla.(I corsivi sono miei)
Chi siamo noi per togliere la vita a un uomo o a una donna? È la domanda che incastra il dibattito sull’eutanasia e sull’accanimento terapeutico che a torto sono stati interscambiati nella discussione di questi giorni come se si trattasse di sinonimi. So che nella Lega e nel centrodestra ci sono giudizi assolutamente contrari al tema: non ultimo il leader di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, ha sancito ieri la sua assoluta contrarietà dicendo che sarebbe un omicidio.
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Non sono un medico, non sono un filosofo. Sono un uomo e penso, come pensano tante persone che hanno ancora voglia di dedicare un po’ del proprio tempo alle riflessioni e non alle scemenze televisive. È vero, non siamo nessuno per togliere la vita a un uomo o a una donna. Però se la questione la porremo sempre così non ne usciremo mai. (Anche perché posta in questi termini si nasconde un riferimento al divino.) Il valore della vita è sancito dalla Costituzione e per quel che mi riguarda anche da una dimensione sacrale. Ma quando la vita rischia di restare “ostaggio” – più o meno consapevolmente – della medicina o peggio delle beghe di partito, la offendiamo ancor più. Welby è diventato un caso politico: se sia stato giusto o sbagliato farlo ormai non ha più interesse; resta aperta la questione che il caso porta con sé. È mai possibile che la politica non sia capace di dare una risposta? Eppure sarebbe una grande occasione per testare la propria capacità di rappresentare il Paese, i suoi elettori, i suoi cittadini. Si dice sempre che la politica deve partire dalla polis: bene, ci sono alcuni temi che interesserebbero molto di più dei referendum elettorali.
Io ho diritto a godere della salute e delle condizioni di vita migliori possibili. Ma so anche che la mia vita biologica ha un limite. Welby ritiene di aver superato quel limite. Welby vorrebbe spegnersi naturalmente, nel senso che s’inchina alle leggi della Natura. Non è credente – mi sembra – per cui non deve fare i conti con la dimensione sacra della vita.
Ma anche se lo fosse e ritenesse ugualmente di non accettare quello che per lui è accanimento terapeutico, il problema non si sposta di un millimetro. Non è da sottovalutare se una maggioranza di cattolici intervistati si sia detto favorevole alla decisione di Welby di morire. Io sono tra questi. Forse sbaglio, per lo meno parliamone. Un giornale serve anche a questo.
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