domenica 10 dicembre 2006

Magris(simo) bottino: eutanasia di Raskolnikov

Anche Claudio Magris scrive di eutanasia (Staccare la spina? No al supermakert morale, Il Corriere della Sera, 10 dicembre 2006, sottotitolo Si può accettare un gesto contro la legge, ma senza spianare la via alla trasgressione. La morte ha perso naturalezza, ma i viventi sono sacri).
Inizia così:

Oltre ad un certo limite, quando la condizione umana viene radicalmente sfigurata o il dolore diventa insostenibile, ogni comandamento o divieto, ogni imperativo morale categorico, ogni articolo di codice appaiono grottescamente inadeguati a quell’intollerabile strazio, assurdi, quasi caricature di se stessi. Il segreto di ogni individuo — anche di un abietto assassino — non è mai del tutto comprensibile per l’articolo di legge che lo condanna; il codice penale russo non può capire a fondo Raskolnikov. Ma non può nemmeno evitare di mandarlo in Siberia, perché anche le due vecchie sue vittime, misteriose quanto lui e quanto ogni uomo, devono essere tutelate. Se si inizia a transigere su una norma etica o giuridica, non si sa dove si va a finire o meglio lo si sa benissimo: si approda a un supermarket morale in cui ogni comportamento è optional e ciascuno sceglie quello che gli pare e gli fa comodo, magari convinto di combattere un’elevata battaglia, giacché tutti noi abbiamo la tentazione di nobilitare la nostra prosaica esistenza col pathos di grandi ideali e con la gratificante convinzione di essere perseguitati per questa battaglia anche quando non lo siamo affatto, per sentirci — pur nella più innocua banalità quotidiana — dei piccoli Galilei minacciati dall’Inquisizione.
Proposta in nome della pietà e della dignità umana, l’eutanasia può divenire facilmente un’obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale; l’arbitrio di chi, in nome della qualità della vita, afferma che al di sotto di una certa qualità la vita non è degna di essere vissuta e si conferisce il diritto di stabilire quale sia il livello che autorizza a eliminare chi non lo possiede. Indubbiamente, per molti dei milioni di bambini spaventosamente denutriti che ci sono al mondo — e spesso lesi, nella loro scandalosa condizione, pure nel pensiero e nell’affettività — la morte sarebbe una sventura minore della vita infame che li attende, ma è dubbio che ciò autorizzi la loro eliminazione.
Che cosa c’entrano i bambini denutriti? Possibile che Magris inciampi negli spauracchi agitati dai tanti untori contrari alla eutanasia in nome di inevitabili tragedie che si scatenerebbero? Igiene sociale, arbitrio, sterminio di Stato. E nel caso della richiesta di eutanasia quale sarebbe la vittima? In genere non si parla di vittima quando colui che chiede e/o agisce è lo stesso di colui che subisce. Si parla di esercizio della propria libertà.
Raskolnikov, con tutto il carico di incompreso e incomprensibile che Magris vuole, ha fatto 2 vittime; se Raskolnikov chiedesse l’eutanasia, chi sarebbe la vittima?
Un’ideologia che si autoproclama progressiva abbina spesso, scorrettamente, l’eutanasia all’aborto, che è una realtà completamente diversa. In primo luogo c’è un momento preciso in cui inizia la vita di un individuo, mentre è spesso difficilissimo o impossibile tracciare una frontiera tra la doverosa lotta alla malattia e l’inutile e crudele accanimento terapeutico. Inoltre nell’eutanasia ci si propone di porre fine all’esistenza di un individuo nel suo interesse, mentre nell’aborto — almeno in quello non terapeutico — si sopprime un individuo nell’interesse di altri.
È vero che il paragone può essere scorretto, ma solo a condizione che si ritenga l’embrione (abortito o abortibile) una persona. Con questa premessa eutanasia e aborto si distinguono in quanto la prima non implica un eventuale danno (la morte) ad un altro (l’embrione) mentre l’aborto non è circoscrivibile come atto di libertà perché investe, appunto, un’altra persona (non è l’ipotesi che io accolgo, ma in questo argomento non è rilevante). L’eutanasia riguarda soltanto se stessi. E allora è necessario rispondere alla domanda: siamo liberi di decidere quando le nostre decisioni riguardano solo noi stessi ed è pertanto esclcuso il danno a terzi?
Ma andiamo avanti con l’analisi del ragionamento di Magris. Davvero esiste un momento preciso in cui inizia la vita di un individuo? È discutibile anche qualora si voglia intendere l’inizio della vita biologica, figuriamoci se immettiamo perfino la differenza tra individuo (come vita biologica) e persona. Analogia vorrebbe che l’argomento di Magris proseguisse dicendo che è difficile indicare il momento in cui finisce la vita (e non è nemmeno corretto perché la morte cerebrale offre questa possibilità). Invece Magris slitta su un altro piano: è difficile distinguere la lotta alla malattia dall’accanimento terapeutico. Ebbene? Difficile non significa impossibile, e la possibilità di tracciare questa frontiera risiede nel singolo paziente. Paziente che, se lo desidera, deve avere la libertà e la garanzia di ricorrere a tutte le possibili terapie (e anche di richiedere l’accanimento terapeutico); ma che dovrebbe avere la libertà di dire basta. Il suo interesse lo decide lui, nessun altro. Inoltre, se l’aborto si condanna in quanto lesivo di un interesse personale, l’esclusione dell’aborto terapeutico è contraddittoria. Dal momento che l’embrione non può esprimere il proprio interesse, una sua condizione di malattia non può giustificarne l’uccisione. Delle due una: o si ammette che sia legittimo eliminare i malati (adulti e embrioni) oppure no. Magris sembra rifiutare l’eliminazione dei malati anche quando sono loro a chiederlo, come può ammettere l’eliminazione in assenza di un consenso?
Sono, siamo tutti contrari all’insensato accanimento terapeutico ed è sacrosanto che a Giulia, la ragazzina di Firenze progressivamente devastata da un tumore, sia stata risparmiata l’ultima chemioterapia, atta solo a differire di poco la sua morte, consentendole così di vivere più umanamente e pienamente la sua stagione estrema, breve ma non perciò meno importante e significativa, perché un giorno non vale necessariamente meno di un mese e anche un’ora di felicità è un assoluto, che sta eterno in Dio non meno di un secolo di storia. Ma dov’è la frontiera tra l’iniquità e la carità del gesto che interrompe l’esistenza di un altro? Ho conosciuto, pure da vicino, infanzie devastate per anni da quella crudeltà (della natura, del caos, della vita, di un dio, di chissachi) cui dobbiamo dire di no e anzi sputare in faccia; creature accompagnate sino alla soglia ultima con una affetto, una vicinanza, un mai arreso amore che ha permesso loro di esprimere per quanto potevano, sino all’ultimo, la loro persona sulla quale la vita passava come una ruspa perversa e idiota.
La scelta di chi è stato loro vicino in quel modo non è meno difficile ed eroica di quella di chi, mosso da altrettanto amore, sceglie di risparmiare a chi ama le sofferenze della distruzione. Togliere — letteralmente o metaforicamente — la spina può essere comunque un gesto amoroso e coraggioso solo se lo si fa pensando al bene dell’altro e non, magari inconsciamente, alle proprie sofferenze per il suo stato, che la sua morte infine placa. Bernanos parlava di certe anime così sensibili da non poter sopportare la vista di una bestiola che soffre sicché finiscono per schiacciarla col piede.
“La frontiera tra l’iniquità e la carità del gesto che interrompe l’esistenza di un altro” sta nella volontà individuale. “Schiacciare la bestiola” non per liberarci da un gravoso impegno, ma per rispettare una (eventuale) richiesta dettata da condizioni personali e soggettive, sulle quali nessuno dovrebbe giudicare o sindacare.
Piergiorgio Welby — che rappresenta idealmente tanti altri compagni di sventura — ha liberamente, consapevolmente chiesto di morire. Qualsiasi filosofia o religione si professi, non si può non essere scossi da questa sua volontà e non sentirla vicina. Certo, ognuno di noi ha doveri che potrebbero contraddire il suo proposito di morire; un pilota, direbbe uno di quei predicatori di un tempo amanti degli esempi eclatanti, non dovrebbe suicidarsi mentre guida l’aereo con i passeggeri di cui è responsabile, e ognuno è sempre in qualche modo pure responsabile di vite altrui, che si intersecano con la sua, e delle ferite che un suo gesto può loro inferire.
Esiste una differenza profonda tra il pilota suicida e un uomo che chiede l’eutanasia. Quest’ultimo ha legami affettivi, ed è indubbio che la sua morte provochi dolore e rammarico. Come la sua condizione sofferente e senza prospettiva di guarigione. Gli effetti di una sua decisione di porre termine ad una esistenza disgraziata, però, non può essere un’arma rivolta contro colui che soffre. È come se dicessimo: se tu muori causerai dolore, allora non devi morire. Come lo stesso Welby ripete spesso, nessun malato vuole morire. Tutti vorrebbero guarire e stare bene. Ma in assenza di simili possibilità, può accadere che le uniche scelte siano tra un poco di tempo in più da vivere tra atroci sofferenze e una morte anticipata come interruzione di quelle sofferenze. Morte anticipata che spesso significa interrompere trattamenti invasivi che mantengono in vita il paziente stesso. Per tornare all’argomento della sofferenza causata alle persone legate a colui che desidera morire, ogni nostra scelta può comportare conseguenze sugli altri. In quali casi la nostra libertà può essere ridotta? Quando (come nel caso del pilota) non solo causa sofferenza, ma viola diritti fondamentali di altri (il diritto alla vita dei passeggeri). Chiedere l’eutanasia può causare sofferenza negli altri, ma in che modo violerebbe diritti fondamentali altrui? (Se accattassimo questo ragionamento arriveremmo a conseguenze paradossali. Se tu mi lasci mi spezzerai il cuore, allora non devi lasciarmi. Ma lasciare il proprio amante causa dolore ma non viola alcun diritto dell’abbandonato; la libertà di lasciare il proprio amante rimane intatta, sebbene causi sofferenza).
Ma nessuno può sapere se e quando il dolore e il peso di un’esistenza si fanno insostenibili; possiamo decidere di portare una croce pesante al punto di schiacciarci, ma non possiamo dire a chi cade sotto il peso della sua croce di continuare a portarselo. E nessun estraneo che in quel momento non soffre o soffre di meno può definire moralmente lecito o illecito il gesto di chi, schiantato dalla pena, decide di ritornare volontariamente agli elementi dissolvendosi in essi o di cadere volontariamente in quell’abisso insondabile che, diceva il teologo gesuita Karl Rahner, è Dio stesso; in quella notte che è forse la forma in cui ci si presenta la mano di Dio in cui cadiamo. Grandi civiltà come quella classica non hanno avuto paura della morte né del suicidio, che — non necessariamente solo in circostanze disperate, ma per vari motivi — la anticipa, comunque di poco. È una grande perdita che si sia perduta questa naturalezza della morte. Non è la vita a essere sacra; la vita è mera opinione, diceva Marco Aurelio, ed è arduo dire, dinanzi alle piramidi di sofferenze accumulate in milioni di anni, che essa sia un bene e che il big bang sia un anniversario da festeggiare.
Ma sacri sono i viventi; in primo luogo gli esseri umani, che non hanno chiesto di vivere né hanno meritato di essere condannati a morte, e che hanno diritto a tutto il rispetto, a tutto l’amore, a tutta la sacralità possibile.
Preferirei sostituire “sacri” e “sacralità” con altri termini. Ma non lasciamoci travolgere dalla pignoleria. Se Magris accettasse di sintetizzare quanto detto da “Ma nessuno” a “sacralità possibile” con l’affermazione che è fondamentale rispettare le persone e la libertà e le loro scelte, saremmo d’accordo.
Anche le richieste come quella di Welby devono essere considerate in questa sacralità. Ma, visto che l’interessato non è materialmente in grado di soddisfare la sua richiesta, chi può — o deve o non deve — esaudirla? I medici, si dice, che possono valutare meglio di altri la sua condizione e ciò che lo attende. Ma i medici possono solo dire, con buona approssimazione, quello che lo aspetta, non il senso della sua sofferenza, della sua sopportazione o del suo rifiuto. Il loro giudizio di fatto non è automaticamente un giudizio di valore. Non a caso la scienza medica oscilla così spesso tra la tentazione di onnipotenza e la vile riluttanza ad assumersi delle responsabilità, forse anche in questo caso. Lasciare la decisione alla famiglia, si dice. A quali membri della famiglia, qualora siano in disaccordo, come nel caso di Terri Schiavo lo erano il marito e i genitori?
La sorte di una persona deve dipendere dal maggiore o minore affetto nutrito da altri nei suoi confronti o addirittura, talora, da interessi materiali, che possono indurre ad auspicare, a seconda dei casi, la sua morte o la sua sopravvivenza in qualsiasi condizione? È discutibile poter disporre della vita di non altro solo perché lo si è messo al mondo o perché si è fatto all’amore con lui o con lei. La famiglia non è e non può essere un tribunale tribale con diritto di vita e di morte; come tale essa, in Occidente, grazie a Dio è finita sin dai tempi della tragedia greca degli Atridi. Qualcuno, per amicizia o per amore o per un comandamento della sua coscienza, può sentire il dovere di porre fine alle sofferenze di un altro, come l’ingegner Ezio Forzatti che ha staccato la spina alla moglie in ospedale, impedendo (con una Beretta scarica) al personale di fermarlo. Egli, tuttavia, non ha mai reclamato il «diritto» di compiere quel gesto e ha dichiarato di voler scontare la pena come un lutto. In qualche modo ha sentito che il suo agire era insieme giusto e punibile e si è assunto la responsabilità delle sue conseguenze.
Si può rispettare un gesto compiuto contro la legge che lo vieta, ma senza per questo voler spianare la strada alla trasgressione delle leggi vigenti, favorendo così un caos feroce. Esistono ad esempio sofferenze psichiche spaventose; una gravissima depressione può provocare una disperazione che chiede comprensibilmente di essere messa a tacere con qualsiasi mezzo, anche se per il nostro automatismo concettuale staccare una spina sembra diverso dal dare del cianuro a un nostro fratello preda di un’angoscia definitiva e insostenibile. In tante incertezze una cosa è certa: non ci si può ipocritamente tranquillizzare convincendosi che vi sia una differenza sostanziale fra staccare una spina o praticare un’iniezione letale, perché entrambe danno con certezza la morte e un’iniezione può essere perfino più pietosa. Se, in un caso estremo, si ritiene meno ingiusto abbreviare la sofferenza e la vita di un altro non si può imbrogliare se stessi dandosi ad intendere, solo perché si è scelta la spina e non l’iniezione, di non aver fatto nulla e di aver lasciato fare alla cosiddetta natura. La quale, peraltro, è così bella e seducente, ma sembra troppo spesso sbagliare conti e calcoli e infischiarsene crudelmente.
E finalmente sono d’accordo con Magris: non esiste una differenza moralmente rilevante tra la cosiddetta eutanasia passiva (staccare la spina) e quella attiva (iniezione letale). Purtroppo nell’apologia della vita a tutti i costi di Magris diventa un ennesimo monito contro la deriva verso “un’obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale”.
Ingrassato di riferimenti mitologici e di recente cronaca diventa un pasciuto capro da sacrificare in nome di quella sacralità della vita spesso nominata. E una scusa, ancora una volta, per non rispondere a Welby. O meglio, per rispondergli andando fuori tema.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

e pure logorroico

Anonimo ha detto...

Cara Chiara, tu scrivi "...È vero che il paragone può essere scorretto, ma solo a condizione che si ritenga l’embrione (abortito o abortibile) una persona". Credo che la terminologia usata debba essere rigorosa. Quando una donna abortisce elimina non un embrione ma un feto e la differenza, non è irrilevante. Si chiede di poter fare ricerca scientifica sugli embrioni non certo sui feti.
Aver paura di chiamare le cose col loro nome e di guardare le azioni per quel che sono (con un aborto la donna elimina certamente un figlio)non aiuta a chiarire le idee e non rafforza certo il sacrosanto diritto della donna di decidere della propria maternità.

Chiara Lalli ha detto...

Cara Stefania,
in questo post intendevo solo distinguere la persona dalla pre-persona (concepito, embrione, feto). Embrione o feto, fatta tale premessa, sono equivalenti in quanto non sono persone.

bibliopavone ha detto...

"Il grosso errore che i pro-abortisti commisero fin dal principio, si disse, fu la linea arbitraria che tracciarono. Un embrione non ha diritti costituzionali e può essere ucciso, legalmente, da un dottore. Ma un feto era una “persona”, con diritti, almeno per un po’; e quindi i pro-abortisti decisero che anche un feto di sette mesi non era “umano” e poteva essere ucciso, legalmente, da un medico autorizzato. E quindi, un giorno, un bambino appena nato – è un vegetale; non può metter a fuoco lo sguardo, non capisce niente, non parla nemmeno…la lobby pro-aborto combatté nei tribunali, e vinse, con la loro pretesa che un bimbo appena nato fosse solo un feto espulso per caso o processo organico dal ventre materno. Ma, anche in tal caso, dove doveva essere tracciata alla fine la linea? Quando il bambino avesse fatto il primo sorriso? Quando avesse pronunciato la prima parola o afferrato per la prima volta un giocattolo che gli fosse piaciuto? La linea legale fu spinta senza sosta indietro e ancora indietro. E ora la più selvaggia ed arbitraria definizione di tutte: quando fosse stato in grado di utilizzare la “matematica superiore”.” (Philip K. Dick, Le pre-persone, Urania 897)