Da la Repubblica, Livia Turco andrà da Welby. “Ma non si può staccare la spina”, 6 dicembre 2006:
Il ministro della Salute, Livia Turco, farà visita a Piergiorgio Welby. Lo ha annunciato a Corrado Augias, nel corso della trasmissione “le storie”, su Rai3. “Andrò a trovarlo”, ha detto la Turco. Ma subito ha ribadito: “Sono contraria però a staccare la spina”. Welby, secondo il ministro, “ci sta dando un grande messaggio, per questo voglio ringraziarlo”. Ma resta contraria a prevedere per legge la possibilità di privare un paziente della vita: “non credo che questo attenga all’esercizio della libertà personale”.Le perplessità rispetto alle dichiarazioni di Livia Turco sono molteplici.
La richiesta di Welby, “la possono accogliere i medici – dice la Turco – sulla base del loro codice deontologico. Sarebbe molto grave una parola di un ministro su una vicenda di questo tipo, che attiene alla libertà personale, al rapporto fra medico e paziente, alla scienza e alla deontologia medica”. Al di là della vicenda di Welby “ci sono tante cose – continua il ministro – che si possono fare per promuovere la dignità delle persone in tutte le fasi della loro vita. Voglio andare a verificare come si muore oggi negli ospedali e nelle strutture sanitarie, fare in modo che le terapie anti-dolore così poco sviluppate diventino normalità e altrettanto le cure palliative. Proprio da Welby traggo la spinta umana ed etica a fare in modo che si possa morire con dignità in questo Paese”.
Omettendo la mia personale confusione provocata dalla visita annunciata (fossi Welby non ci terrei proprio a questa visita; anzi, quasi la giudicherei inopportuna), mi sembra poco pertinente l’espressione del parere soggettivo e individuale sulla possibilità di staccare la spina. I “secondo me”, libere espressioni del proprio pensiero (prima che qualcuno mi obietti “e che vuoi tapparle la bocca? proprio tu che osanni la libertà?” anticipo la mia difesa: “certo che no, ma mi aspetterei qualcosa in più da un uomo politico, altrimenti potremmo riportare tutti i pareri di tutti i possibili cittadini e stilare un elenco prolisso e poco utile di pareri”), rischiano in questa circostanza di trasformarsi in affermazioni sprovviste di solide giustificazioni. Innanzi tutto, quali sarebbero le ragioni per opporsi alla richiesta di Welby? E ancora, perché la sua richiesta non potrebbe rientrare nell’esercizio della libertà personale? Se la libertà personale esiste, quali sono le circostanze che estromettono la volontà (di morire) di Welby dal dominio della sua libertà personale?
La richiesta di Welby non la possono accogliere i medici senza rischiare di trovarsi in un procedimento penale per omicidio del consenziente. Almeno se la accolgono alla luce del sole. Ma che cosa stiamo suggerendo? Forse di agire in clandestinità? Oggi, la vicenda Welby è pubblica, politica e scottante.
In quanto pubblica e politica meriterebbe una risposta pubblica e politica. Senza sotterfugi o ipocrisie.
Va benissimo promuovere la dignità delle persone (a patto di ascoltare da loro cosa sia degno oppure no per loro stessi) e incentivare le terapie del dolore e le cure palliative e verificare le condizioni degli ospedali e delle strutture sanitarie. Va benissimo. Ma che cosa diavolo c’entra?
Sembra magnanimo e di animo nobile essere contrari “a prevedere per legge la possibilità di privare un paziente della vita”. Come potremmo definire, però, la privazione per legge dell’autodeterminazione e l’imposizione di sofferenze insopportabili? Il diniego di mettere fine a quelle sofferenze? Come?
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