domenica 25 febbraio 2007

Homo (in)habilis

Francesco Agnoli ha l’onore di essere oggetto delle nostre attenzioni ancora una volta nel giro di poco tempo scrivendo nell’inserto èFamiglia Ma io Dico: i giovani chiedono ben altro, Avvenire, 23 febbraio 2007 (non varrebbe nemmeno la pena di prenderlo seriamente in considerazione se non fosse rappresenttivo di un pensiero ossessivo e ingombrante). Inizia con una domanda folgorante (poi si lascia prendere dalla foga narrativa):

I giovani hanno veramente bisogno dei Dico? Stiamo guardando al loro futuro, stiamo forse pensando a loro? Per rispondere a questa domanda, così essenziale, vorrei partire dalla vita, dall’esperienza concreta. Qualche sera fa ho portato al cinema una mia classe, a vedere “La ricerca della felicità” di Gabriele Muccino. Un film ispirato ad una storia vera. La storia di una famiglia in cui la madre abbandona marito e figlio, perché i disagi economici rendono la vita, per lei, insopportabile. Il padre, invece, vuole tenere duro: ha avuto anche lui una infanzia difficile, ha conosciuto suo padre molto avanti negli anni, e vuole per suo figlio qualcosa di diverso. Il film è tutto giocato su questo rapporto, tra padre e figlio: il padre che domanda di continuo al suo bambino se ha fiducia in lui. E il bimbo che si affida, come tutti i bimbi, a chi lo ama. Poi, alla fine del film, ho riportato a casa una mia alunna: non a casa sua, ma di sua nonna. Il padre, infatti, vive da una parte, la madre da un’altra, e lei con la nonna. Vede sua madre in giorni prestabiliti, ma non per molto, né con grande gioia: «Lei tanto è indaffarata col suo moroso». Io, che ho vissuto in una bella famiglia, unita, felice, non ho potuto non commuovermi, e chiedermi: cosa stiamo dando, ai nostri giovani? Tutti in fondo se lo chiedono: cosa gli stiamo dando, per quanto riguarda la famiglia, o per quanto riguarda il lavoro.
Francesco Agnoli si pone come interprete e portavoce dei “giovani”, e a loro nome spiega che “no, dei Dico i giovani non hanno bisogno” e che “i giovani hanno bisogno della famiglia Vera” (ha chiesto loro di che opinione fossero?). Che cosa poi sia, la famiglia Vera, ce lo spiega lui. Se esista o se sia mai esistita io non so. Ma Francesco è convinto che i principali guai (se non addirittura tutti i guai) derivino dalla dissoluzione di questo passepartout esistenziale. Come se il matrimonio (in chiesa, si intende) possa ergersi a garante di qualcosa. E non perché legalmente è possibile divorziare. Anche prima del divorzio esistevano famiglie (bollate dal matrimonio indissolubile, data di scadenza: MAI) infelici, disastrose, pericolose. Umberto Galimberti, il cui pensiero e il cui modo di “fare filosofia” non mi sono congeniali, una volta rivolse ai lettori della sua rubrica su D di Repubblica una questione scomoda e imbarazzante (a proposito di un caso di una mamma che avevo ucciso il figlio inscenando un rapimento; il figlio era naturale e la mamma regolarmente sposata): se l’ingenuo pensiero dell’amore materno e delle premure parentali non fosse tale (ingenuo), non ci ritroveremmo con tanti bambini, adolescenti e adulti inguaiati. In altre parole (vorrei che Francesco comprendesse senza sbavature): le madri non sono sempre amorevoli e premurose; le famiglie (tradizionali) non sono sempre accudenti e rassicuranti; i legami familiari non sono sempre impostati sulla fiducia e l’amore. Distinguere i buoni dai cattivi in base a una parola (Matrimonio) è una operazione rassicurante ma nella migliore delle ipotesi inefficace. E spesso stupida, di quella stupidità cieca e insofferente alle complicazioni e alle distinzioni.
Mi fa sorridere l’apologia del film di Gabriele Muccino, l’ingenuità del dire con enfasi “è una storia vera” (e pertanto avrebbe un valore aggiuntivo?), la semplificazione del pensare che un modello formale possa garantire il buon esito della “ricerca della felicità”. Mi piacerebbe sapere se davvero il caro Francesco sia convinto che la famiglia (come la intende lui, madre padre e figli) sia una garanzia sufficiente a conferire stabilità e rassicurazione. E mi astengo dal chiedere cosa diavolo ci facesse Francesco al cinema con una sua alunna (sì, sì; al cinema era con tutta la classe, ma poi a casa ne ha riaccompagnata soltanto una. Oppure è munito di un pulmino giallo?).
Ma andiamo avanti con la lettura.
Il grande finanziere George Soros, un ebreo ungherese che vive in America, ha scritto un libro, “Soros su Soros” (editrice Ponte alle Grazie), molto utile per capire dove stiamo andando. In esso ci parla delle sue doti di “filantropo”: si batte, con le sue infinite disponibilità economiche, in collaborazione con Hugh Hefner, proprietario di Playboy, per una «società aperta», cioè una società in cui vi sia droga libera, mobilità lavorativa, mercato libero, emigrazione e immigrazione... in cui «la struttura organica di una società si è disintegrata al punto che i suoi atomi, gli individui, si muovono in varie parti senza radici». In questa società, scrive Soros, «amici, vicini di casa, mariti e mogli diventano, se non intercambiabili, almeno prontamente rimpiazzabili da sostituti impercettibilmente inferiori, o superiori... il rapporto tra genitori e figli rimane presumibilmente fisso, ma i legami che li uniscono potrebbero diventare meno importanti». L’essenziale, prosegue Soros, è che «nelle società aperte ogni individuo deve trovarsi da solo il proprio scopo di vita», sapendo che la libertà è semplicemente la possibilità dell’individuo di «conseguire il proprio interesse personale come egli lo percepisce».
Ma noi siamo veramente fatti per questo? Siamo veramente fatti «per il nostro interesse personale», per muoverci di continuo, per continuare a cambiare lavoro e dimora? Siamo fatti per avere più famiglie, più genitori, amici e vicini intercambiabili, e cioè senza valore? A me non sembra. Mi pare, al contrario, che tanti giovani non credono più all’amore per sempre perché gli abbiamo tolto la terra sotto i piedi: abbiamo reso ardua l’opzione famiglia, con le mille paure e con la sfiducia che caratterizzano la cultura odierna, e poi rimandando di continuo l’età della indipendenza lavorativa, precarizzando il lavoro, omettendo ogni politica sociale a favore della famiglia...
È molto interessante come la pluralità diventi interscambiabilità e poi assenza di valore. Seguendo quella idea che la possibilità di scelta costituisca in realtà una svalutazione. In fondo, se la Verità è una, tutte le altre “opzioni” hanno poco o nessun valore.
Le credenze, poi, non hanno il potere di affermarsi a dispetto delle circostanze. Io posso pure credere in Gesù Bambino, ma non è la debolezza della mia credenza a far trapelare le crepe. Così, posso anche credere nell’amore per sempre, ma se mio marito mi picchia cosa scelgo, la credenza o la fuga?
L’uomo, invece, è l’unico “animale” che ha bisogno di sicurezza, di stabilità, di fedeltà, di unità: l’unico che rimane legato alla famiglia d’origine, per tutta la vita; l’unico che dipende da essa per moltissimi anni; l’unico che tendenzialmente ama per sempre; l’unico che mantiene il legame con i suoi cari, tramite la tomba, persino dopo la morte... L’uomo crea e desidera amicizie stabili, una dimora fissa, un lavoro che non cambi di continuo... Su questa stabilità costruisce la sua identità, il suo essere qualcuno, la sua tranquillità interiore.
Ma che ne sa? È lecito che qualcuno desideri diversamente? E come si mantiene il legame con i propri cari tramite la tomba? È un legame monodirezionale? Oppure anche chi sta sottoterra mantiene un legame? Gli argomenti di Francesco sono stringenti, e non poteva mancare il richiamo ai figli adottati o ai figli della procreazione assistita.
Il figlio ha la necessità di poter contare sui suoi genitori, vive della loro unità e soffre delle loro discordie; il marito e la moglie, hanno bisogno di poter contare sul coniuge, di aver in lui una sicurezza, un aiuto, un conforto.
Lo dimostra molto bene il caso dei figli adottati o, ancor di più, di quelli nati con fecondazione artificiale eterologa. I primi, infatti, ricercano di solito i loro genitori naturali, desiderano conoscerli, anche se si trovano benissimo nella famiglia adottiva. I nati da eterologa, invece, come racconta Chiara Valentini, giornalista de L’espresso, nel suo “La fecondazione proibita” (editrice Feltrinelli), divenuti maggiorenni si mettono spesso sulle tracce del loro padre o della loro madre genetici: eppure non li hanno mai visti, neppure di lontano!
Feltrinelli è una casa editrice femminile?
Ebbene cosa stiamo costruendo noi con i Dico? Stiamo creando una società sempre più aperta, ma nel senso di liquida, di sfuggente, di instabile ed incerta... in cui un figlio, o una moglie, si cambiano come si cambia il lavoro, anzi più in fretta ancora di un co.co.co, o come si cambia un cellulare, affinché l’economia continui a girare... Così facendo però non costruiamo l’uomo, ma lo decostruiamo: torneremo nomadi, come nei tempi preistorici: nomadi spirituali, cioè uomini soli, senza radici, senza storia, senza legami. I giovani non vogliono questo: soprattutto quelli come la mia alunna, che ha sperimentato su di sé l’incertezza dell’amore, vogliono altro. È la mia personale riflessione, ma anche la mia esperienza quotidiana di insegnante. Tutti vorrebbero costruire sulla roccia degli affetti stabili, e non sulla sabbia delle passioni mutevoli, delle paure e degli egoismi. Compito dello Stato è tutelare e difendere questo desiderio originario, e non altro.
Tutelare, non imporre. Tutelare significa proteggere, non eliminare gli avversari. Starebbe bene Agnoli tra gli uomini d’un tempo. Quelli che non si ponevano troppi interrogativi sulla vita e sulla morte, ma dovevano procacciarsi il cibo. E tenere a freno la lingua per concentrare le energie sulla corsa e il pugnalare a morte la povera bestiola da fare alla brace.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Buffo.
Massimo Coppola (Rolling Stone, pag 27) sul film di Muccino ha avuto pensieri diversi. La prima delle otto domande a riguardo è proprio "Perchè vuoi invitarci a commuoverci per le vicende di un tale che anzichè cercarsi un lavoro dignitoso costringe il figlioletto a una vita da homeless con la remota speranza di diventare un milionario?".

C'è da dire che nello stesso editoriale della rivista, che tratta dell'argomento Pacs/Dico, Carlo Antonelli aveva esordito con un pensiero più che ricorrente nelle teste di questi giovinastri che Agnoli vorrebbe prendere per la cavezza e condurre placidamente alla mangiatoia prestabilita: "In pieno folle dibattito sulla faccenda Pacs (che definire retrò è poco, riferito com'è stato a cittadini tutt'altro che padroni, evidentemente, di esercitare il sacrosanto diritto di definire l'economia giuridica della propria vita emotiva), ecco un numero di Rolling Stone che ruota proprio intorno all'idea di famiglia"

quale famiglia? Quella di Agnoli? No.

"l'unica famiglia accettabile (quella più allargata possibile), l'unica forma sicura di pensione (gli amici), l'unica forma di politica reale: l'agire in comunità."

Non dico che i lettori di Avvenire siano tutti over 50, ma Rolling Stone mi pare più rappresentativo riguardo a "come la pensano i giovani", visto che non siamo tutti papaboys e che almeno nella mia cara generazione Cernobyl targata '86 gli atei si sprecano.

Unknown ha detto...

Sottolineo anche il "sottile" suggerimento dell'Agnoli su chi siano i nemici della societa' cattolica: Soros e Hefner, che il nostro etichetta rispettivamente come finanziere ebreo e fondatore di playboy.
Come sara' intitolato il prossimo articolo di Agnoli, "Protocolli dei Savi di Sion"???