Un leader ebreo, amatissimo dai suoi seguaci. Un uomo giusto e sapiente, a tal punto da venire dichiarato – col suo assenso, benché espresso ambiguamente – Messia. Dopo la sua morte i seguaci, benché costernati, rimangono convinti che tornerà presto a instaurare il regno di Dio. Molti anzi negano che sia morto: benché sia stato sigillato in una tomba, sostengono che in realtà è vivo, nel suo corpo di carne. Col tempo, mentre i libri che raccolgono i suoi detti si affiancano alle scritture della tradizione giudaica, si comincia a pensare a lui come a un essere divino: «Il Rebbe (il Maestro) non è stato creato: il Rebbe è sempre stato e sempre sarà». Infine, alcuni giungono all’estremo scandalo, tra lo sdegno degli Ebrei ortodossi: il Rebbe e Dio, affermano, sono una cosa sola.
Un destino straordinario, quasi inspiegabile col metro delle normali vicende umane; un destino, quello di Menachem Mendel Schneerson (1902-1994), settimo Rebbe della setta Lubavitch – perché di lui stiamo parlando – decisamente unico, o quasi... (cfr. Saul Sadka, «The Lubavitcher Rebbe as a God», Haaretz, 12 febbraio 2007).
lunedì 12 febbraio 2007
In principio era il Rebbe
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